Libera lo splendore prigioniero. Il tentativo è quello di attivare delle volontà, di far partire una scintilla che, raccolta da chi ci segue, crei una scarica permanente, un flusso. Verrà il momento in cui tutti gli sconvolgimenti cosmici si assesteranno e l’universo si aprirà per un attimo, mostrandoci quello che può fare l’uomo.

venerdì 16 luglio 2010

René Guénon - GLI STATI MOLTEPLICI DELL'ESSERE


René Guénon
GLI STATI MOLTEPLICI DELL'ESSERE

Indice

Introduzione
I. L'INFINITO E LA POSSIBILITÀ
II. POSSIBILI E COMPOSSIBILI
III. L'ESSERE E IL NON-ESSERE
IV. FONDAMENTO DELLA TEORIA DEGLI STATI MOLTEPLICI
V. RAPPORTI TRA L'UNITÀ E LA MOLTEPLICITÀ
VI. CONSIDERAZIONI ANALOGICHE TRATTE DALLO STUDIO DELLO STATO DI SOGNO
VII. LE POSSIBILITÀ DELLA COSCIENZA INDIVIDUALE
VIII. IL MENTALE, ELEMENTO CARATTERISTICO DELL'INDIVIDUALITÀ UMANA
IX. LA GERARCHIA DELLE FACOLTÀ INDIVIDUALI
X. I CONFINI DELL'INDEFINITO
XI. PRINCIPI DI DISTINZIONE TRA GLI STATI DELL'ESSERE
XII. I DUE CAOS
XIII. LE GERARCHIE SPIRITUALI
XIV. RISPOSTA ALLE OBBIEZIONI RIGUARDANTI LA PLURALITÀ DEGLI ESSERI
XV. LA REALIZZAZIONE DELL'ESSERE PER MEZZO DELLA COSCIENZA
XVI. CONOSCENZA E COSCIENZA
XVII. NECESSITÀ E CONTINGENZA
XVIII. NOZIONE METAFISICA DELLA LIBERTÀ

Traduzione di Giampiero Dagradi
Traduzione ricavata dal testo originale
“Les états multiples de l'être”
Editions Véga - Paris

© 1965 - Edizioni Studi Tradizionali
Viale XXV Aprile, Torino





I – L’INFINITO E LA POSSIBILITÀ

Per capire la dottrina della molteplicità degli stati dell’essere, è necessario risalire, prima di ogni altra considerazione, alla più primordiale delle nozioni, quella dell’Infinito metafisico, considerato in rapporto alla Possibilità universale. L’Infinito, secondo il significato etimologico del termine, è ciò che non ha limiti: e per conservare il suo reale significato bisogna riservarne rigorosamente l’impiego a tutto ciò che non ha assolutamente alcun limite, escludendo quanto può sottrarsi a certi limiti particolari, pur essendo soggetto ad altri, essenzialmente inerenti alla sua stessa natura, come ad esempio è il caso, da un punto di vista logico (che in fondo è il riflesso di quello che potremmo chiamare un punto di vista «ontologico»), di quegli elementi che intervengono nella definizione stessa di ciò di cui si tratta. Quest’ultimo caso, che già altre volte abbiamo preso in considerazione, è in particolare quello del numero, dello spazio e del tempo, e vale anche quando questi elementi vengono concepiti nel modo più generale ed esteso, cosa del resto assai rara [È importante osservare che diciamo «generali», e non «universali», trattandosi di condizioni speciali di certi stati di esistenza; ciò è sufficiente a far comprendere che in tal caso non si può parlare di infinità, essendo queste condizioni evidentemente limitate, come gli stati a cui si applicano e che concorrono a definire]; esso non sfugge, in realtà, al dominio dell’indefinito. È a questo indefinito che taluni, quando è di ordine quantitativo come negli esempi citati, danno abusivamente il nome di «infinito matematico», come se l’aggiunta di un epiteto o di una qualificazione determinativa al termine «infinito» non implicasse già di per sé una contraddizione [Se talvolta può accaderci di parlare di «Infinito metafisico», proprio per mettere in risalto in modo esplicito che non si tratta del cosiddetto «infinito matematico» o di altre «contraffazioni» dell’Infinito, se così è lecito esprimerci, desideriamo tuttavia far notare che questa espressione non è soggetta all’obiezione testé formulata, essendo l’ordine metafisico realmente illimitato, e quindi privo di ogni determinazione, e contenendo anzi in sé l’affermazione di ciò che va al di là di ogni determinazione; mentre il termine «matematico» restringe invece il concetto ad un dominio particolare e limitato, quello della quantità]. In realtà quest’indefinito, procedendo dal finito di cui non è che un’estensione o uno sviluppo, è sempre riducibile al finito, e non è commensurabile al vero Infinito: proprio come l’individualità, umana o non umana, anche considerata nell’integralità dei prolungamenti indefiniti di cui è suscettibile, non è commensurabile all’essere totale [v. «Il Simbolismo della Croce», capp. XXVI e XXX]. La formazione dell’indefinito dal finito, di cui abbiamo dato ora un esempio, è di fatto possibile solo a condizione che il finito contenga già in potenza l’indefinito; quand’anche i limiti si allontanassero fino ad essere persi di vista (e cioè fino a sfuggire ai nostri normali mezzi di misura), non per questo verrebbero soppressi: è più che evidente, per la natura stessa della relazione causale, che il «più» non può provenire dal «meno», né l’Infinito dal finito.
E non può essere altrimenti quando si tratta, come nel caso attuale, di certi ordini di possibilità particolari, evidentemente limitati dalla coesistenza di altri ordini di possibilità, e quindi dalla loro stessa natura, che prevede determinate possibilità, e non «tutte» le possibilità, senza alcuna restrizione. Se così non fosse, questa coesistenza di un’indefinità di altre possibilità non comprese fra quelle considerate, ed ognuna delle quali ancora suscettibile di sviluppo indefinito, sarebbe un’impossibilità, cioè un’assurdità nel senso logico della parola [L’assurdo, in senso logico, è ciò che implica contraddizione; si assimila dunque all’impossibile, dal momento che è proprio l’assenza di contraddizione interna che definisce la possibilità, sia logicamente che ontologicamente]. L’Infinito, invece, per essere veramente tale, non può ammettere alcuna restrizione, e cioè deve essere assolutamente incondizionato e indeterminato, poiché ogni determinazione, per il fatto stesso che lascia qualcosa fuori di sé (e cioè tutte le altre determinazioni ugualmente possibili) è evidentemente un limite. Il limite, d’altronde, ha in sé tutti i caratteri di una vera e propria negazione: imporre un limite significa negare, a tutto ciò che vi è compreso, ciò che resta fuori; la negazione di un limite è dunque in realtà la negazione di una negazione, e cioè, logicamente e matematicamente, un’affermazione: potremo quindi concludere che la negazione di ogni limite equivale in realtà all’affermazione totale ed assoluta. Ciò che non ha limiti non ha in sé nulla che possa essere negato, contiene dunque ogni cosa, e nulla esiste al di fuori di esso; questa idea dell’infinito, che è la più affermativa di tutte le idee possibili poiché comprende tutte le affermazioni particolari, di qualunque ordine, deve quindi esprimersi con un termine di forma negativa proprio a causa della sua assoluta indeterminazione. Ogni osservazione diretta è, infatti, necessariamente una affermazione particolare e determinata, e rappresenta l’affermazione di qualcosa; l’affermazione totale ed assoluta invece non è una affermazione particolare che ne esclude altre, bensì le implica tutte. Il rapporto fra quanto abbiamo detto e la Possibilità universale, che comprende in sé ogni possibilità particolare, è evidente [Sull’uso dei termini in forma negativa, ma il cui significato reale è essenzialmente affermativo, v. l’«Introduzione generale allo studio delle dottrine indù», 2° parte, cap VIII e «L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta», cap XV].
L’idea dell’Infinito che risulta da quanto abbiamo esposto [Diciamo «esposta», e non «definita», poiché sarebbe evidentemente contraddittorio voler dare una definizione dell’Infinito; e abbiamo altronde dimostrato che neppure il punto di vista metafisico, in virtù del suo carattere universale e illimitato, è suscettibile di definizione («Introduzione generale allo studio delle dottrine indù», 2° parte, cap. V)] non è minimamente discutibile o contestabile sul piano metafisico poiché non comporta alcuna contraddizione, non contenendo alcunché di negativo; ed è inoltre necessaria, nel senso logico della parola [Bisogna distinguere la necessità logica costituita dall’impossibilità che una cosa non sia ciò che è, o che sia qualcosa di diverso da ciò che è (indipendentemente da qualsiasi condizione particolare), dalla necessità «fisica», o di fatto, che rappresenta solo l’impossibilità per le cose o gli esseri di non conformarsi alle leggi del mondo al quale appartengono, e che è evidentemente subordinata alle condizioni che definiscono questo mondo e valida solo all’interno di questo dominio particolare], perché sarebbe piuttosto la sua negazione ad essere contraddittoria [Alcuni filosofi, che molto giustamente hanno criticato il concetto del cosiddetto «infinito matematico», mostrando tutte le contraddizioni implicite in quest’idea (è che d’altronde scompaiono non appena ci si renda conto che si tratta in realtà di indefinito), ritengono con ciò di aver provato anche l’impossibilità dell’Infinito metafisico; in realtà, con questa confusione, essi dimostrano solo di ignorare completamente di cosa si tratta in quest’ultimo caso]. Infatti, se consideriamo il «Tutto» in senso universale ed assoluto, è chiaro che esso non può essere in alcun modo limitato, poiché ciò che potrebbe limitarlo dovrebbe essere esteriore ad esso, e se questo accadesse, non si tratterebbe allora del «Tutto». È necessario anche osservare che il «Tutto», in questo senso, non dovrà mai essere assimilato ad un tutto particolare e determinato, e cioè ad un insieme costituito da parti legate ad esso da un rapporto definito; esso, in realtà, è «senza parti», poiché queste sono necessariamente relative e finite, e non possono dunque avere una comune misura od un qualsiasi rapporto con il «Tutto», per il quale, quindi, in definitiva non esistono [In altri termini il finito, anche se è suscettibile di estensione indefinita, è pur sempre rigorosamente nullo di fronte all’Infinito; ne deriva che alcuna cosa o essere, potranno mai venire considerati come una «parte dell’Infinito»: questo concetto, del tutto sbagliato, è caratteristicamente panteistico, poiché l’uso stesso della parola «parte» presuppone l’esistenza di un rapporto definito con il tutto]; e questo basti a sconsigliare chiunque dal volersene formare un’immagine particolare [Ciò che soprattutto bisogna evitare è di concepire il Tutto universale come una somma aritmetica, ottenuta con l’addizione delle sue parti prese una ad una e successivamente. D’altra parte, anche quando si tratta di un tutto particolare, è necessario distinguere fra due casi: un tutto, nel vero senso della parola, il quale è logicamente anteriore alle sue parti e ne è indipendente, e un tutto concepito come logicamente posteriore alle sue parti e come la somma di queste, il quale rappresenta in realtà ciò che veniva chiamato dai filosofi scolastici un «ens rationis», e la cui esistenza è subordinata, in quanto «tutto», alla condizione di essere effettivamente pensato come tale; il primo ha in sé un principio di unità reale, superiore alla molteplicità delle sue parti, mentre il secondo non ha altra unità che quella che gli attribuiamo con il pensiero].
Quanto abbiamo detto circa il Tutto universale, nella sua indeterminazione più assoluta, è ancora applicabile quando lo si consideri sotto l’aspetto della Possibilità: e in realtà questa non è una determinazione, o quanto meno è il minimo di determinazione possibile per rendercelo attualmente concepibile, e soprattutto esprimibile. Come abbiamo già osservato [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXIV], un limite alla Possibilità totale è un’impossibilità nel vero senso della parola, poiché, dovendo comprendere la Possibilità per limitarla, non può essere compreso in essa, e ciò che è al di fuori di essa è evidentemente l’impossibile; ma un’impossibilità , e cioè una pura e semplice negazione, non è altro che il nulla, che non può evidentemente rappresentare un limite; se ne conclude perciò che la Possibilità universale è necessariamente illimitata. Non dimentichiamo d’altronde che questo è applicabile solo alla Possibilità universale e totale, che è quindi un aspetto dell’Infinito, dal quale non si distingue in alcun modo; d’altra parte nulla può esservi fuori dell’Infinito, poiché ne costituirebbe un limite, ed allora non si tratterebbe più dell’Infinito. L’idea di una «pluralità di infiniti» è un’assurdità, dal momento che essi si limiterebbero l’un l’altro, e nessuno di essi sarebbe allora infinito [v. ibid., cap XXIV]; se dunque diciamo che la Possibilità universale è infinita o illimitata, intendiamo con ciò che essa non è altro che l’Infinito considerato sotto un suo aspetto, ammesso che si possa parlare di «aspetti» dell’Infinito. Dal momento che l’Infinito è «senza parti» non dovrebbe esservi, a rigore, una molteplicità di aspetti esistenti realmente e «distintivamente» in esso; e infatti siamo noi che lo concepiamo sotto un aspetto particolare, perché non possiamo fare altrimenti, ed anche se la nostra concezione non fosse essenzialmente limitata dal fatto che apparteniamo ad uno stato individuale, dovrebbe per forza limitarsi per diventare esprimibile, poiché per questo le è necessario rivestirsi di una forma determinata. Ciò che conta però è che si abbia sempre presente quale è la causa di questo limite, e quale ne é la natura, in modo da attribuirla alla nostra imperfezione , o piuttosto a quella degli strumenti interiori ed esteriori di cui disponiamo attualmente, in quanto esseri individuali, dotati effettivamente di un’esistenza definita e condizionata, ed evitare di ascrivere quest’imperfezione, contingente e transitoria come le condizioni a cui si riferisce e dalle quali risulta, al dominio illimitato della Possibilità universale.
Aggiungiamo un’ultima osservazione: parlando correlativamente dell’Infinito e della Possibilità non intendiamo certo stabilire fra questi due termini una distinzione che in realtà non esiste; si tratta piuttosto di considerare in questo caso l’Infinito sotto un aspetto attivo, mentre la Possibilità ne é l’aspetto passivo [Si tratta di Brahma e della sua Shakti nella dottrina indù (v. L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. V e X)]; ma che lo si immagini attivo o passivo, si tratta pur sempre dell’Infinito, che non viene certo infirmato da questi punti di vista contingenti, e le determinazioni, qualunque sia il principio che le attualizza, esistono solo in rapporto al nostro modo di concepire. Si tratta, in fondo, di ciò che abbiamo chiamato, utilizzando la terminologia estremo-orientale, la «perfezione attiva» (Khien) e la «perfezione passiva» (Khuen), essendo la Perfezione, in senso assoluto, identica all’Infinito inteso in tutta la sua indeterminazione; e tutto questo, come abbiamo già detto, è analogo, ma ad un grado differente e sotto un aspetto ben più universale, a quelle che sono l’«essenza» e la «sostanza» nell’Essere [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXIV]. Sia ben chiaro, sin d’ora, che l’Essere non racchiude in sé tutta la Possibilità, e non è quindi per nulla identificabile all’Infinito; per questo diciamo che il punto di vista dal quale ora ci poniamo è molto più universale di quello che riguarda l’Essere; su ciò insistiamo appunto per evitare ogni confusione, pur riservandoci di ritornare in seguito sull’argomento.

II - POSSIBILI E COMPOSSIBILI

Abbiamo detto che la Possibilità universale è illimitata, e non può che essere tale; volerla concepire altrimenti significa ridursi a non concepirla del tutto. È questo, in fondo, che rende tutti i sistemi filosofici dell’Occidente moderno impotenti da un punto di vista metafisico, e cioè universale; ciò avviene proprio perché, come abbiamo accennato varie volte, si tratta di sistemi, e come tali si avvalgono in realtà di concezioni limitate e chiuse, le quali possono anche avere componenti tali da attribuire loro una certa validità in un dominio relativo, ma diventano pericolose e false non appena pretendono, prese nel loro insieme, di essere qualcosa di più di quel che sono, facendosi passare per l’espressione della realtà totale. Evidentemente è sempre legittimo considerare in modo particolare certi ordini di possibilità e di escluderne altri, purché si sia in grado di poterlo fare, e questo è appunto il compito di ogni scienza; non è però lecito affermare che ciò costituisce tutta la Possibilità, e negare così tutto quel che supera i limiti più o meno ristretti della propria comprensione individuale [È da notare infatti che ogni sistema filosofico si presenta essenzialmente come l’opera di un individuo, contrariamente a quanto avviene per le dottrine tradizionali, del tutto indipendenti da ogni individualità]. Peraltro la caratteristica essenziale che sembra inerente a tutta la filosofia occidentale moderna è proprio la sistematicità, e questa è una delle ragioni per cui il pensiero filosofico, nel senso più comune della parola, non ha e non può avere assolutamente niente in comune con le dottrine di ordine puramente metafisico [v. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. VIII; L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. I; Il Simbolismo della Croce, capp. I e XV].
Fra i filosofi che, in virtù di questa tendenza sistematica ed «antimetafisica», hanno cercato di limitare in un modo o in un altro la Possibilità universale, alcuni, come Leibnitz (che peraltro è uno dei pochi dotati, sotto molti aspetti, di orizzonti abbastanza ampi), hanno voluto utilizzare a questo proposito la distinzione dei «possibili» e dei «compossibili»; ma è fin troppo evidente che questa distinzione, nella misura in cui è veramente applicabile, non può certo servire a questo scopo illusorio. Di fatti, i compossibili non sono altro che dei possibili compatibili fra loro, la cui riunione in unico complesso non provoca all’interno di questo alcuna contraddizione; di conseguenza la «compatibilità» è sempre essenzialmente relativa all’insieme di cui si tratta. È evidente d’altronde che quest’insieme può essere sia quello dei caratteri costituenti tutti gli attributi di un oggetto particolare o di un essere individuale, sia qualcosa di molto più generale ed esteso, come l’insieme di tutte le possibilità soggiacenti a certe condizioni comuni, e formanti, per questo motivo, un ordine particolare, o uno dei domini compresi nell’Esistenza universale; ma in ogni caso occorre sempre che si tratti di un insieme determinato, poiché in caso contrario la distinzione non si applicherebbe più. Così, volendo considerare subito un esempio di ordine particolare ed estremamente semplice, un «quadrato circolare» è un impossibilità, poiché la riunione dei due possibili «quadrato» e «cerchio» in una stessa figura implica una contraddizione; il che non toglie che questi due possibili siano tuttavia ugualmente realizzabili, dal momento che nulla vieta l’esistenza simultanea di un quadrato e di un cerchio posti uno vicino all’altro nello stesso spazio, o di qualunque altra figura geometricamente concepibile [Così, per citare un esempio di portata più vasta, la geometria euclidea e quelle non euclidee non possono evidentemente applicarsi ad uno stesso spazio; ma questo non impedisce che le diverse modalità spaziali alle quali esse corrispondono, coesistano nell’integrità della possibilità spaziale, nella quale ognuna di esse si realizza a modo suo, come spiegheremo parlando dell’identità effettiva del possibile e del reale]. Non ci sembra il caso di insistere su di un esempio così evidente; per la sua semplicità esso ha però il pregio di aiutare a comprendere, per analogia, casi apparentemente più complessi, come quello di cui parleremo ora.
Se invece di esaminare un oggetto o un essere particolare consideriamo ciò che potremmo chiamare, secondo una terminologia da noi già altre volte usata, un mondo, e cioè l’insieme formato da tutti i compossibili che si realizzano nella manifestazione, questi compossibili dovranno essere tutti i possibili determinati da certe condizioni che caratterizzano e definiscono precisamente il mondo in questione, costituendo così uno dei gradi dell’Esistenza universale. Gli altri possibili, non determinati dalle stesse condizioni, e che quindi non possono far parte dello stesso mondo, sono però ugualmente realizzabili naturalmente in modo adeguato alla loro natura. In altre parole, ogni possibile ha la sua propria esistenza [È evidente che il termine «esistenza» non va inteso in senso rigoroso e conforme alla sua derivazione etimologica, poiché tale senso è strettamente applicabile solo all’essere condizionato e contingente, e cioè alla manifestazione; esso viene da noi utilizzato - come talvolta abbiamo anche fatto per la parola «essere», precisandone il senso fin dall’inizio - in modo puramente analogici e simbolico, perché ci aiuta in una certa misura a far capire ciò di cui si tratta, benché in realtà sia estremamente inadeguato (v. Il Simbolismo della Croce, capp. I e II)], ed i possibili la cui natura implica una realizzazione, nel senso in cui normalmente si intende questo termine, e cioè un’esistenza in un modo qualsiasi di manifestazione [Si tratta in tal caso dell’«esistenza» nel senso proprio e rigoroso della parola], non possono perdere questo carattere , che è loro essenzialmente inerente, e divenire irrealizzabili per il solo fatto che altri possibili sono attualmente realizzati. Possiamo anche aggiungere che ogni possibilità di manifestazione deve, proprio per questo, necessariamente manifestarsi, ed inversamente, ogni possibilità che non deve manifestarsi è una possibilità di non-manifestazione; sotto questa forma, sembrerebbe trattarsi di una semplice questione di definizione, e peraltro l’affermazione precedente non comportava che questa verità assiomatica, assolutamente indiscutibile. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché non tutte le possibilità debbono manifestarsi, cioè perché esistono sia le possibilità di manifestazione che quella di non-manifestazione: risponderemo che il dominio della manifestazione, limitato per il fatto stesso di essere un insieme di mondi, o di stati condizionati (d’altronde in moltitudine indefinita), non può da solo esaurire la Possibilità universale nella sua totalità; al di fuori di esso vi è tutto l’incondizionato, e cioè proprio quel che metafisicamente più conta. Ci si potrebbe anche chiedere perché una data possibilità non debba manifestarsi, al contrario di quanto accade per altre; ma ciò equivarrebbe a chiedersi perché mai una certa possibilità è quella che è, e non un’altra; o, analogamente, perché mai un essere è quel che è, e non un altro: domanda evidentemente priva di senso. Ciò che è veramente importante, in quanto abbiamo detto, è il comprendere che una possibilità di manifestazione non possiede, in quanto tale, alcuna superiorità su di una possibilità di non-manifestazione: essa non è frutto di una specie di «scelta» o di «preferenza» [Questa idea è metafisicamente ingiustificabile, e proviene unicamente dall’intrusione del punto di vista morale in un dominio che non è il suo; del resto anche il «principio del migliore» a cui Leibnitz fa allusione in questa occasione è propriamente antimetafisico, come già abbiamo fatto notare in altra sede (Il Simbolismo della Croce, cap III)]; è soltanto di un’altra natura.
A questo punto si potrebbe obiettare, a proposito dei compossibili, che, secondo l’espressione di Leibnitz, «non vi è che un mondo»: ma diremo subito che questa affermazione, o è pura tautologia, o non ha senso. Se per «mondo» si intende l’Universo totale, o anche, se ci si vuole limitare alle possibilità di manifestazione, il dominio comprendente tutte le sue possibilità, e cioè l’Esistenza universale, l’affermazione è fin troppo evidente, anche se il modo in cui viene espressa può essere improprio; ma se con ciò si vuole intendere solo un certo insieme di compossibili, che è il caso più frequente, ed anche quello da noi considerato poco fa, è assurdo pretendere che la sua esistenza non ammetta la coesistenza di altri mondi: tanto quanto sarebbe assurdo, per riprendere un esempio già fatto, dire che l’esistenza di un cerchio impedisce la coesistenza di un quadrato, o di un triangolo, o di qualunque altra figura geometrica. Tutto quel che si può dire è che come i caratteri di un certo oggetto escludono da questo la presenza di altri caratteri in contraddizione con essi, allo stesso modo le condizioni che definiscono un mondo determinato escludono da questo mondo i possibili la cui natura non implica una realizzazione sottoposta a queste stesse condizioni; questi possibili non sono dunque compresi nel mondo considerato, ma non per questo sono esclusi dalla Possibilità, poiché sono possibili per ipotesi; né lo sono, in casi più particolari, dall’Esistenza, considerata comprensiva di tutto il dominio della manifestazione universale. Nell’Universo esistono molteplici modi di esistenza, ed ogni possibile ha quello che più gli conviene in relazione alla sua natura. Qualcuno, riferendosi evidentemente alle concezioni di Leibnitz (e travisandone alquanto il pensiero), ha voluto immaginare una specie di «lotta per l’esistenza» fra i possibili, ma si tratta di una teoria che di metafisico non ha proprio nulla, ed un simile tentativo di trasporre una semplice ipotesi biologica (connessa alle moderne teorie «evoluzionistiche») è anzi del tutto inintelligibile.
La distinzione fra possibile e reale, su cui tanti filosofi hanno voluto insistere, non ha dunque alcun valore metafisico: ogni possibile è reale modo suo, e cioè secondo quanto la sua natura comporta [Con ciò intendiamo dire che metafisicamente non è possibile considerare il reale come costituente un ordine diverso da quello del possibile; ma d’altra parte bisogna rendersi conto che la parola «reale» è di per sé assai vaga, se non equivoca, almeno nell’uso che ne viene fatto comunemente, e persino della maggior parte dei filosofi; la abbiamo usata solo perché è stato necessario eliminare la distinzione ordinaria possibile e reale, ma ci riserviamo di darle in seguito un significato assai più preciso]; in caso contrario vi sarebbero dei possibili che non equivarrebbero a niente, e dire che un possibile non è niente è una pura e semplice contraddizione; l’impossibile, e solo l’impossibile, come abbiamo già detto, può equivalere al nulla. Negare che vi siano delle possibilità di non-manifestazione, significa voler limitare la Possibilità universale; d’altra parte, negare che, fra le possibilità di manifestazione, ve ne siano di vari ordini, significa limitarla ancora più strettamente.
Prima di continuare, osserveremo ancora che invece di considerare l’insieme delle condizioni che determinano un mondo, come abbiamo fatto sin qui, si potrebbe anche considerare una sola di queste condizioni: per fare un esempio, fra le condizioni del mondo corporeo, lo spazio, come sede delle possibilità spaziali [È importante notare che la distinzione spaziale non è sufficiente a definire da solo un corpo come tale; ogni corpo è necessariamente esteso, e cioè sottoposto allo spazio (il che, in particolare, implica la sua divisibilità indefinita, e dimostra l’assurdità della concezione atomistica), ma contrariamente alla asserzioni di Cartesio e di altri sostenitori di una fisica «meccanicistica», l’estensione non costituisce affatto la natura o l’essenza dei corpi]. È evidente che, per definizione, solo le possibilità spaziali possono realizzarsi nello spazio, ma è altrettanto evidente che questo non impedisce alle possibilità non spaziali di realizzarsi parimenti (ed in questo caso, poiché ci si limita alla considerazione delle possibilità di manifestazione, useremo il termine «realizzarsi» come sinonimo di «manifestarsi»), al di fuori di quella particolare condizione di esistenza che è lo spazio. Pertanto, se lo spazio fosse veramente infinito, come pretendono alcuni, nell’Universo non vi sarebbe posto per alcuna possibilità non spaziale, e volendo considerare l’esempio più comune e conosciuto, il pensiero, non si potrebbe allora concepirne logicamente l’esistenza se non considerandolo come esteso: concezione falsa, e ritenuto tale senza alcuna esitazione dalla stessa psicologia «profana»; ma, lungi dall’essere infinito, lo spazio non è che uno dei modi possibili della manifestazione, che a sua volta è tutt’altro che infinita, anche nell’integralità della sua estensione, e pur comportando un’indefinita di modi, ciascuno dei quali è esso stesso indefinito [v. Il Simbolismo della Croce, cap XXX]. Queste osservazioni sono applicabili a qualsiasi altra condizione speciale di esistenza: e ciò che vale per ognuna di queste condizioni presa a sé, vale anche per l’insieme di alcune di esse, la cui riunione o combinazione determina un mondo. Evidentemente è necessario che le differenti condizioni così riunite siano compatibili fra loro, e la loro compatibilità comporta quella dei possibili che esse rispettivamente comprendono, con la prescrizione che i possibili sottoposti all’insieme delle condizioni considerate possono non costituire che una parte di quelli compresi in ognuna di queste condizioni considerata a parte dalle altre: donde risulta che queste condizioni comporteranno, nella loro integralità, oltre ad una parte comune, dei prolungamenti in direzioni diverse, appartenenti ancora allo stesso grado dell’Esistenza universale. Questi prolungamenti, di estensione indefinita, corrispondono, nell’ordine generale e cosmico, a ciò che sono, per un essere particolare, i prolungamenti di uno dei suoi stati, per esempio quelli di uno stato individuale considerato integralmente, al di là dunque di una certa modalità definita di questo stato, come la modalità corporea nella nostra individualità umana [v. ibid., cap XI; ed ancora L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. II e capp. XII e XIII].

III – L’ESSERE E IL NON-ESSERE

Abbiamo finora indicato la distinzione fra le possibilità di manifestazione e le possibilità di non-manifestazione, entrambe comprese, ed allo stesso titolo, nella Possibilità totale. Questa distinzione si impone alla nostra attenzione prima di qualunque altra, poiché stabilisce i diversi modi della manifestazione universale, e cioè i diversi ordini di possibilità che essa comporta, ripartite secondo le condizioni speciali a cui sono rispettivamente sottoposte, e costituenti la moltitudine indefinita dei mondi o dei gradi dell’Esistenza.
Detto questo, e volendo definire l’Essere, in senso universale, come principio della manifestazione, e come comprendente nello stesso tempo l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione, dobbiamo subito precisare che l’Essere non è infinito, dal momento che non coincide con la Possibilità totale; tanto più che l’Essere, come principio della manifestazione, comprende sì tutte le possibilità di manifestazione, ma soltanto in quanto si manifestano. Al di fuori dell’Essere vi è dunque tutto il resto, e cioè tutte le possibilità di non-manifestazione, ed inoltre tutte le possibilità di manifestazione allo stato non manifestato; e l’Essere stesso vi si trova incluso, poiché non può appartenere alla manifestazione in quanto ne è il principio, ed è quindi non-manifestato. Per designare dunque quanto è fuori e al di là della manifestazione, in mancanza di un altro termine , non ci rimane che usare quello di Non-Essere; e questa espressione negativa, che per noi è ben lungi dall’essere sinonimo di «nulla» (come appare talvolta nel linguaggio di certi filosofi), oltre ad essere ispirata dalla terminologia della dottrina metafisica estremo-orientale, è sufficientemente giustificata dalla necessità di trovare un’espressione qualsiasi che ci permetta di parlarne; vale inoltre l’osservazione da noi già fatta in precedenza, che le idee più universali, anche perché sono le più indeterminate, non possono esprimersi, nella misura in cui sono esprimibili, che per mezzo di termini a forma negativa, come abbiamo visto a proposito dell’Infinito. Si può dire che il Non-Essere, nel senso ora indicato, è più dell’Essere, o anche che è superiore all’Essere, intendendo con questo che ciò che esso comprende è al di là dell’estensione dell’Essere, è contiene nel suo principio l’Essere stesso. Non dimentichiamo inoltre che, opponendo in questo modo il Non-Essere all’Essere, o anche solo distinguendoli, ne deriva che nè l’uno nè l’altro sono infiniti, poiché, sotto questo aspetto, in certo qual modo si limitano l’un l’altro; l’infinità appartiene dunque all’insieme dell’Essere e del Non-Essere, è quest’insieme è identico alla Possibilità universale.
In altre parole, potremmo dire che la Possibilità universale contiene necessariamente la totalità delle possibilità, e l’Essere ed il Non-Essere ne sono i due aspetti: l’Essere in quanto manifesta le possibilità (o più esattamente, alcune fra di esse); il Non-Essere in quanto non le manifesta. L’Essere contiene dunque tutto il manifestato; il Non-Essere contiene tutto il non-manifestata, l’Essere compreso; ma la Possibilità universale comprende sia l’Essere che il Non-Essere. Aggiungiamo che il non-manifestato comprende anche tutto ciò che potremmo definire come «non manifestabile», e cioè le possibilità di manifestazione che non si manifestano, dal momento che la manifestazione comprende evidentemente solo le possibilità di manifestazione, quando queste si manifestano [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XV].
Per quanto riguarda i rapporti fra Essere è Non-Essere, è essenziale ricordare che lo stato di manifestazione è sempre transitorio e condizionato, e che, anche per le possibilità che comportano la manifestazione, lo stato di non-manifestazione è il solo ad essere assolutamente permanente ed incondizionato [Naturalmente, quando diciamo «transitorio», non vogliamo con questo considerare esclusivamente, e neppure principalmente, la successione temporale, poiché questa si applica solo ad modo speciale della manifestazione]. A questo proposito aggiungiamo che nulla di quanto è manifestato può «perdersi», per usare un’espressione piuttosto corrente, se non passando nel non-manifestato; e naturalmente questo passaggio (che, riferito alla manifestazione individuale, non è altro che una «trasformazione» nel senso etimologico del termine, e cioè un passaggio al di là della forma) può essere considerato una «perdita» solo dal punto di vista particolare della manifestazione, poiché nello stato di non-manifestazione, al contrario, tutte le cose sussistono eternamente nel loro principio, indipendentemente dalle condizioni particolari e limitative che caratterizzano i vari modi dell’esistenza manifestata. Tuttavia, per poter affermare che «nulla si perde», sia pure con la restrizione concernente il non-manifestato, bisogna considerare tutto l’insieme della manifestazione universale, e non solo alcuni dei suoi stati, escludendone altri: infatti, data la continuità esistente fra di essi, può sempre avvenire un passaggio dall’uno all’altro senza che questo passaggio, che in fondo è un cambiamento di modo (ma a sua volta implicante un cambiamento nelle condizioni di esistenza), permetta di uscire dal dominio della manifestazione [Circa la continuità degli stati dell’essere, v. Il Simbolismo della Croce, capp. XV e XIX. Quanto abbiamo detto serve a dimostrare che i pretesi principi della «conservazione della materia» e della «conservazione dell’energia», comunque vengano espressi, non sono altre in fondo che semplici leggi fisiche del tutto relative ed approssimative: esse, all’interno stesso del dominio in cui si applicano, sono valide a meno di certe condizioni restrittive, che sussisterebbero ancora se, mutatis mutandis, si volessero estendere tali leggi trasponendone convenientemente i termini a tutto il dominio della manifestazione. I fisici stesse, d’altronde, sono costretti a riconoscere che si tratta di casi-limite, nel senso che tali leggi sono applicabili soltanto a ciò che essi chiamano «sistemi chiusi», e cioè a qualcosa che in realtà non esiste e non può esistere, essendo impossibile realizzare o anche solo concepire, all’interno della manifestazione, un assieme che sia completamente isolato da tutto il resto, senza alcuna comunicazione o scambio con ciò che ne è al di fuori; tale soluzione di continuità sarebbe una vera lacuna nella manifestazione, poiché quest’assieme risulterebbe come inesistente in rapporto al resto].
Quanto alle possibilità di non-manifestazione, esse appartengono essenzialmente al Non-Essere, ed in virtù della loro stessa natura non possono partecipare al dominio dell’Essere, contrariamente a quanto accade per le possibilità di manifestazione; ma come abbiamo già detto, tutto questo non implica ancora una superiorità delle une sulle altre: ambedue non sono che modi di realtà differenti, e conformi alle loro rispettive nature, ed in fondo, anche la stessa distinzione fra Essere e Non-Essere è puramente contingente, essendo valida solo dal punto di vista della manifestazione, punto di vista essenzialmente contingente. Queste considerazioni, peraltro, non diminuiscono affatto l’importanza che questa distinzione ha per noi: nello stato in cui ci troviamo non ci è infatti possibile vedere effettivamente le cose che sotto questo punto di vista, che è nostro in quanto siamo esseri condizionati e individuali, appartenenti al dominio della manifestazione, e questo stato possiamo superare solo liberandoci completamente, attraverso la realizzazione metafisica, dalle condizioni limitative dell’esistenza individuale.
Come esempio di una possibilità di non-manifestazione potremmo citare il vuoto, possibilità concepibile almeno negativamente, escludendo cioè talune determinazioni: il vuoto implica l’esclusione non solo di ogni attributo corporeo o materiale, e di qualsiasi qualità formale, ma addirittura di tutto ciò che può essere in relazione con un modo qualsiasi di manifestazione. È dunque un’assurdità pretendere che possa esserci del vuoto in ciò che è compreso nella manifestazione universale, qualunque sia lo stato considerato [È quanto sostengono in particolare gli atomisti], poiché il vuoto appartiene essenzialmente al dominio della non-manifestazione; né è possibile dare a questo termine un’altra eccezione intelligibile. Non ci dilungheremo oltre a questo proposito poiché non possiamo trattare il problema del vuoto in tutti i suoi sviluppi senza discostarci troppo del nostro argomento; ma dal momento che le maggiori confusioni sorgono soprattutto a proposito dello spazio [La concezione di uno «spazio vuoto» è contraddittoria, e questo, per inciso, costituisce di per sé una prova sufficiente della realtà dell’elemento etereo (Akasha), in contrasto con le varie scuole che, in India e in Grecia , non ammettono che quattro elementi corporei], avremo modo di sviluppare opportunamente le nostre considerazioni a questo riguardo nello studio che intendiamo consacrare in particolare alle condizioni dell’esistenza corporea [Sul vuoto, e sui suoi rapporti con lo spazio, v. Il Simbolismo della Croce, cap. IV]. Per ora aggiungeremo solo che il vuoto, comunque lo si voglia riguardare, non è il Non-Essere, ma ne è piuttosto un aspetto, una possibilità, del tutto differente da quelle comprese nell’Essere, e quindi al di fuori di quest’ultimo anche quando sia considerato nella sua totalità, e ciò dimostra ancora una volta che l’Essere non è infinito. D’altronde, se è vero che tale possibilità costituisce un aspetto del Non-Essere, non dobbiamo tuttavia dimenticare che essa non può venire concepita in modo distintivo, cosa questa possibile solo nell’ordine della manifestazione; ciò serve a spiegare perché, pur arrivando a concepire effettivamente la possibilità del vuoto, o un’altra dello stesso ordine, noi non possiamo esprimerla che in forma puramente negativa: questa osservazione, del tutto generale per quello che riguarda il Non-Essere, serve ancora a giustificare l’impiego che facciamo di questo termine [Tao-te-King, cap XIV].
Potremmo applicare considerazioni dello stesso genere a qualunque altra possibilità di non-manifestazione, e prendere ancora in esame un altro esempio, il silenzio: ma l’applicazione ne è talmente evidente che non ci pare il caso di insistervi oltre. Ci limiteremo perciò, a questo proposito, a far osservare quanto segue: come il Non-Essere, o il non-manifestato, comprende ed ingloba l’Essere, principio della manifestazione, così il silenzio comporta in sè il principio della parola; in altri termini, come l’Unità (l’Essere) non è altro che lo Zero metafisico (il che Non-Essere) affermato, la parola non è altro che il silenzio espresso; ma inversamente, lo Zero metafisico, pur essendo l’Unità non affermata, e anche qualcosa di più (e diremo meglio, qualcosa di infinitamente più); ed il silenzio, che nel senso da noi precisato ne rappresenta un aspetto, non è soltanto la parola non espressa: bisogna infatti considerare anche quanto non è esprimibile, e cioè non suscettibile di manifestazione (in effetti è lo stesso dire espressione e dire manifestazione, anzi manifestazione formale), dunque, di determinazione in modo distintivo [È l’inesprimibile (e non l’incomprensibile, come normalmente si crede) che viene primitivamente designato dalla parola «mistero», poiché, in greco,  deriva da , che significa «tacere», «essere silenzioso». Alla stessa radice verbale mu (da cui il latino mutus, «muto») si ricollega la parola  «mito», che prima di venire deviata dal suo significato fino a non designare altro che un racconto fantastico, significava ciò che, non essendo suscettibile di un’espressione diretta, poteva essere suggerito unicamente mediante una rappresentazione simbolica, verbale o figurativa]. Il rapporto così stabilito fra il silenzio (non manifestato) e la parola (manifestata) mostra come sia possibile concepire possibilità di non-manifestazione che corrispondano, per trasposizione analogica, a certe possibilità di manifestazione [Allo stesso modo si potrebbero considerare le tenebre in un senso superiore come ciò che è al di là della manifestazione luminosa, ed in un senso inferiore (e più comune), come l’assenza o privazione della luce nel manifestato, e cioè qualcosa di puramente negativo. Il simbolismo del colore nero viene d’altronde utilizzato effettivamente con questo doppio significato], senza giungere in alcun modo ad introdurre nel Non-Essere una distinzione effettiva che, in questo caso, non potrebbe aver luogo, poiché l’esistenza in modo distintivo (che è poi l’esistenza nel vero senso della parola) è essenzialmente inerente alle condizioni della manifestazione (e aggiungiamo che, in ogni caso, modo distintivo non è necessariamente sinonimo di modo individuale, dal momento che quest’ultimo implica in particolare la distinzione formale) [Si noterà che le due possibilità di non-manifestazione testé considerate corrispondono all’«Abisso» (Bythas) ed al «Silenzio» (Sige) di certe scuole del gnosticismo alessandrino, e sono in effetti aspetti del Non-Essere].

IV – FONDAMENTO DELLA TEORIA DEGLI STATI MOLTEPLICI

Quanto è stato detto contiene, in tutta la sua universalità, il fondamento della teoria degli stati molteplici: se si considera infatti un essere qualsiasi nella sua totalità, esso dovrà comportare, almeno virtualmente, stati di manifestazione e stati di non-manifestazione, poiché soltanto in questo senso si può parlare di «totalità»; in caso contrario, ci troviamo di fronte a qualcosa di incompleto e frammentario, che non può certo costituire l’essere totale [Come abbiamo detto all’inizio, volendo parlare dell’essere totale dobbiamo chiamarlo ancora, per analogia, «un essere» in mancanza di un termine più adeguato, e pur non essendo più quest’ultimo propriamente applicabile]. Solo la non-manifestazione, come abbiamo detto, possiede il carattere di permanenza assoluta; è dunque da essa che la manifestazione, nella sua condizione transitoria, trae la sua realtà, e da questo fatto si vede come il Non-Essere, lungi dal rappresentare il «nulla», ne sia esattamente il contrario, ammesso che il «nulla» possa avere un contrario, poiché ciò supporrebbe ancora in esso un certo grado di «positività», mentre invece si tratta della «negatività» assoluta, e cioè della pura e semplice impossibilità [Il «nulla» non si oppone dunque all’Essere, contrariamente a quanto solitamente si pensa; si opporrebbe invece alla Possibilità, se potesse entrare come termine reale in un’opposizione qualsiasi; ma dato che non è così, non vi è nulla che possa opporsi alla Possibilità, il che è facile a capirsi se si considera che in realtà la Possibilità è identica all’Infinito].
Detto questo, è chiaro che sono essenzialmente gli stati di non-manifestazione che assicurano all’essere la permanenza e l’identità; se dunque si considera l’essere unicamente nella manifestazione senza metterlo in rapporto con il suo principio non manifestato, questa permanenza e questa identità non possono essere che illusorie, poiché il dominio della manifestazione è propriamente quella del transitorio e del molteplice, e comporta modificazioni continue ed indefinite. Da quanto abbiamo esposto si comprende facilmente come va intesa, da un punto di vista metafisico, la cosiddetta unità dell’«io», e cioè dell’essere individuale, che sembra essere così indispensabile alla psicologia occidentale e «profana»: innanzitutto si tratta di un’unità frammentaria, poiché si riferisce solo ad una porzione dell’essere, e cioè a uno dei suoi stati preso a sè, ed arbitrariamente, fra un indefinità d’altri (e si noti che anche questo stato non viene quasi mai considerato nella sua integralità); in secondo luogo quest’unità, anche se ci si limita a considerare solo lo stato particolare a cui si riferisce, è ancora del tutto relativa, dato che questo stato si compone di un’indefinita di modificazioni differenti, e la sua realtà è tanto minore quanto più si fa astrazione dal principio trascendente (il «Sé», o la personalità), che, solo, potrebbe veramente conferirgliela, mantenendo l’identità dell’essere, in modo permanente, attraverso tutte queste modificazioni.
Gli stati di non-manifestazione appartengono al Non-Essere, e gli stati di manifestazione all’Essere, considerato nella sua integralità: questi ultimi, dunque, corrispondono ai diversi gradi dell’Esistenza, non essendo altro che differenti modalità, in moltitudine indefinita, della manifestazione universale. Per poter stabilire una distinzione netta fra l’Essere e l’Esistenza bisogna, come abbiamo già detto, considerare l’Essere come principio della manifestazione; l’Esistenza universale sarà dunque la manifestazione integrale dell’insieme delle possibilità che l’Essere comporta, che d’altronde sono «tutte» le possibilità di manifestazione, e questo implica lo sviluppo effettivo di queste possibilità in modo condizionato. L’Essere comprende dunque in sé l’Esistenza, e ne è metafisicamente superiore, poiché ne rappresenta il principio; quanto all’Esistenza, essa non è identica all’Essere, dal momento che a questo corrisponde un minor grado di determinazione e quindi un maggior grado di universalità [Ricordiamo ancora che «esistere», nell’accezione etimologica della parola (dal latino ex-stare) significa propriamente essere dipendente o condizionato; e cioè, non avere in sè il proprio principio o la propria ragione sufficiente, che è il caso della manifestazione, come diremo meglio in seguito, definendo in maniera più precisa la contingenza].
Benché l’Esistenza sia essenzialmente unica, appunto perché l’Essere è Uno, nondimeno essa comprende la molteplicità indefinita dei modi di manifestazione, e questo proprio in quanto sono tutti ugualmente possibili; naturalmente questa possibilità implica che ciascuno di essi si realizzi secondo le condizioni che gli sono proprie. Come abbiamo già detto altrove, parlando di questa «unicità dell’Esistenza» (in arabo Wahdatul-wujud) e riferendoci all’esoterismo islamico [Il Simbolismo della Croce, cap. I], se ne deduce che l’Esistenza, pur nella sua «unicità», comporta un’indefinita di gradi, corrispondenti a tutti i modi della manifestazione universale (che non è altro, in fondo, che l’Esistenza); e questa molteplicità indefinita di gradi dell’Esistenza implica correlativamente, per un essere qualsiasi considerato nel dominio integrale dell’Esistenza, una molteplicità parimenti indefinita di stati di manifestazione possibili, ciascuno dei quali deve realizzarsi in un grado determinato dell’Esistenza universale. Uno stato di un essere è dunque lo sviluppo di una possibilità particolare compresa in tale grado, e questo grado è definito dalle condizioni cui soggiace la possibilità considerata, ammettendo che essa si realizzi nel dominio della manifestazione [Questa restrizione è necessaria poiché evidentemente, nella sua essenza non-manifestata, questa stessa possibilità non può essere sottoposta a tali condizioni]. Così, ogni stato di manifestazione di un essere corrisponde ad un grado dell’Esistenza, e questo stato comporta inoltre diverse altre modalità, che sono in relazione con le varie combinazioni di condizioni proprie ad uno stesso modo generale di manifestazione; infine, ogni modalità comprende a sua volta una serie indefinita di modificazioni secondarie ed elementari. Se per esempio, consideriamo l’essere in quel particolare stato che è l’individualità umana, la parte corporea non è che una modalità di questa individualità, e questa modalità è determinata non da una condizione speciale di esistenza, ma da un certo numero di condizioni il cui insieme definisce il mondo sensibile e corporeo [È ciò che viene designato dalle dottrine indù come il dominio della manifestazione grossolana; talvolta viene anche usata l’espressione «mondo fisico», che tuttavia è equivoca: essa può giustificarsi per il senso moderno della parola «fisico», che difatti viene applicata solo per quanto riguarda le facoltà sensibili, ma pensiamo sia meglio conservare ad esso il suo significato antico ed etimologico (da  , natura); in quest’ultimo caso, allora, la manifestazione sottile è altrettanto «fisica» di quella grossolana, essendo la «natura» - e cioè il dominio del «divenire» - identica in realtà alla manifestazione universale]. Come abbiamo già detto [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XI], ognuna di queste condizioni, considerata isolatamente dalle altre, può estendersi al di là del dominio di questa modalità; e, sia in grazia alla propria estensione, sia attraverso combinazione con altre condizioni, può allora costituire i domini di altre modalità, facenti parte della stessa individualità integrale. D’altra parte ogni modalità è suscettibile di un particolare sviluppo nel corso di ogni suo ciclo di manifestazione: per la modalità corporea, in particolare, le modificazioni secondarie che questo sviluppo comporta saranno tutti i momenti della sua esistenza (vista qui sotto l’aspetto della successione temporale) o anche, se vogliamo, tutti gli atti ed i gesti che essa compirà nel corso dell’esistenza [v. ibid., cap XII].
Non ci sembra il caso di insistere sulla scarsa importanza che può assumere l’«io» individuale nella totalità dell’essere [v. ibid. cap XXVII]; anche volendolo considerare nella sua integralità (e non solo in una modalità particolare come quella corporea) esso non rappresenta che uno stato come gli altri, e fra un’indefinità di altri; ciò vale se limitiamo il nostro esame ai soli stati di manifestazione, ma ancor più se pensiamo che, da un punto di vista metafisico, questi stati sono ciò che vi è di meno importante dell’essere totale, per le ragioni che già abbiamo esposto [Potremmo dunque dire che l’«io», con tutti i prolungamenti di cui è suscettibile, è incomparabilmente meno importante di quanto vogliano gli psicologi e i filosofi occidentali moderni, pur avendo possibilità indefinitamente più estesa di quanto essi credano o arrivino lontanamente a immaginare (v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. ii; e quant’altro diremo circa le possibilità della coscienza individuale]. Fra gli stati di manifestazione ve ne sono alcuni, individualità umana a parte, che possono ancora essere individuali (e cioè formali), mentre altri sono non-individuali (o informali), e la natura di ciascuno di essi (ed il loro posto nell’insieme gerarchicamente organizzato dell’essere) è determinato dalle condizioni che gli sono peculiari, poiché, trattandosi di stati manifestati, sono per questa stessa ragione condizionati. Quanto agli stati di non-manifestazione, è chiaro che essi, essendo informali, e non sottoposti a condizioni derivanti da particolari modi di esistenza manifestata, sono essenzialmente extra-individuali; possiamo dire che essi sono ciò che vi è di veramente universale in ogni essere: in altre parole, sono ciò che ricollega ogni essere in tutto e per tutto al suo principio metafisico e trascendente; mancando questo collegamento non si avrebbe altro che un’esistenza del tutto contingente, e, in sostanza, illusoria.

V – RAPPORTI TRA L’UNITÀ E LA MOLTEPLICITÀ

Nel Non-Essere non può esservi molteplicità di stati, poiché si tratta essenzialmente del dominio dell’indifferenziato e dell’incondizionato: l’incondizionato non può soggiacere alle determinazioni dell’uno e del molteplice, e l’indifferenziato non può esistere in modo distintivo. Se ora parliamo degli stati di non-manifestazione, non è per stabilire una specie di simmetria con gli stati di manifestazione, poiché ciò sarebbe ingiustificato e del tutto artificiale, ma è solo perché dobbiamo necessariamente introdurre una distinzione, senza la quale ci sarebbe impossibile trattare l’argomento. Non dimentichiamo tuttavia che questa distinzione in sé non esiste, e siamo noi ad attribuirle un’esistenza del tutto relativa, che ci permette così di esaminare quelli che abbiamo chiamato gli aspetti del Non-Essere, rilevando d’altronde quanto quest’espressione ha d’improprio e d’inadeguato. Nel Non-Essere non vi è molteplicità, e, a rigore, non vi è neppure unità, dal momento che il Non-Essere è lo Zero metafisico, al quale abbiamo attribuito un nome per poterne parlare: esso è logicamente anteriore all’unità, ed è per questa ragione che la dottrina indù, a questo proposito, parla di una «non-dualità» (adwaita), il che ci riporta d’altronde a quanto abbiamo già detto circa l’impiego di termini in forma negativa.
È essenziale osservare ancora che lo Zero metafisico non ha alcun rapporto con lo zero matematico (che, come segno, altro non indica se non ciò che potremmo chiamare un «nulla di quantità»), così come non vi è alcun rapporto fra il vero Infinito e il semplice indefinito (cioè la quantità indefinitamente crescente decrescente) [I due casi dell’indefinitamente crescente e dell’indefinitamente decrescente corrispondono, in realtà, a quelli che Pascal ha definito così impropriamente i due infiniti (v. Il Simbolismo della Croce, cap XXIX); ma insistiamo ancora una volta sul fatto che questi non ci permettono affatto di uscire dal dominio quantitativo]; questa assenza di rapporti, se così ci si può esprimere, è esattamente dello stesso ordine sia nell’uno che nell’altro caso, ma con una riserva, imposta dal fatto che lo Zero metafisico è solo un aspetto dell’Infinito; o, perlomeno, ci è concesso di considerarlo tale in quanto contiene principialmente l’unità, e di conseguenza tutto il resto. In effetti, l’unità primordiale non è altro che lo Zero affermato, o, in altre parole, l’Essere universale (che è questa unità) non è che il Non-Essere affermato, nella misura in cui tale affermazione è possibile, poiché si tratta già di una prima determinazione e, anzi, della più universale di tutte le affermazioni definite, e quindi condizionate. Questa prima determinazione, che precede ogni manifestazione o particolarizzazione (compresa la polarizzazione in «essenza» e «sostanza», che è la prima dualità, e quindi il punto di partenza di ogni molteplicità), contiene in sé il principio di tutte le altre determinazioni o affermazioni distintive (corrispondenti a tutte le possibilità di manifestazione), il che significa che l’unità , una volta affermata, ha in sè il principio della molteplicità, o che ne è essa stessa il principio immediato [Ricorderemo ancora una volta che l’unità di cui stiamo parlando è l’unità metafisica «trascendentale» che si applica all’Essere universale come attributo «coestensivo» di quest’ultimo, per usare il linguaggio dei logici (benché la nozione di «estensione», e quella di «comprensione» che le è correlativa, non siano più propriamente applicabili aldilà delle «categorie» o degli ordini più generali, e cioè quando si passa dal generale all’universale), e che, come tale, differisce essenzialmente dall’unità matematica o numerica, applicabile al solo dominio quantitativo; e questo vale anche per la molteplicità, come d’altronde abbiamo già fatto notare varie volte. Vi è solo analogia, e non identità (e neppure similitudine), fra le nozioni metafisiche di cui parliamo e le nozioni matematiche corrispondenti; il fatto che le une e le altre vengano designate con una terminologia comune, in fondo non esprime altro che questa analogia].
Si è discusso spesso ed inutilmente di come possa la molteplicità provenire dall’unità, senza badare al fatto che il problema, posto in questi termini, non comporta alcuna soluzione, per la semplice ragione che è mal posto, e non corrisponde, sotto questa forma, ad alcuna realtà: in effetti, la molteplicità non proviene affatto dall’unità, come l’unità non proviene dallo Zero metafisico, né alcunché può provenire dal Tutto universale, né esservi possibilità alcuna fuori dell’Infinito o della Possibilità totale [Per questa ragione pensiamo che sia opportuno evitare, per quanto possibile, l’impiego di un termine come «emanazione», che evoca un’idea, o piuttosto un’immagine falsa, quella di un’uscita fuori del Principio]. La molteplicità è compresa nell’unità primordiale, e continua ad esserlo nel corso del suo sviluppo in modo manifestato; ad essa appartengono le possibilità di manifestazione, né essa può essere concepita altrimenti, poiché è la manifestazione stessa che implica l’esistenza distintiva; d’altronde, trattandosi di possibilità, queste devono esistere secondo le modalità che la loro natura comporta. Così, il principio della manifestazione universale, pur essendo uno, ed essendo anzi l’unità stessa, contiene necessariamente la molteplicità, la quale, nei suoi indefiniti sviluppi, e svolgendosi indefinitamente secondo un’indefinità di direzioni [È ovvio che la parola «direzioni», tratta dalla considerazione delle possibilità spaziali, deve essere intesa qui simbolicamente, poiché in senso letterale si applicherebbe soltanto ad un’infima parte delle possibilità di manifestazione; il senso che le diamo in questo caso è conforme a quanto abbiamo esposto nel Simbolismo della Croce], deriva tutta dall’unità primordiale, nella quale resta pur sempre compresa. L’unità primordiale, inoltre, non risulta in alcun modo infirmata o modificata dalla molteplicità, poiché, evidentemente, non può cessare di essere quel che è a causa di qualcosa che è insito nella sua stessa natura; ed in effetti è proprio in quanto unità, che essa implica essenzialmente le molteplici possibilità di cui abbiamo parlato. È dunque nell’unità stessa che la molteplicità esiste, e dal momento che essa non infirma l’unità, dobbiamo dedurre che la sua esistenza è del tutto contingente in rapporto a questa; possiamo anzi dire che tale esistenza, finché non viene posta in relazione con l’unità, è puramente illusoria: dall’unità stessa, intesa come suo principio, essa trae tutta la realtà di cui è suscettibile; ed a sua volta l’unità non è un principio assoluto ed autosufficiente, ma deve allo Zero metafisico la sua realtà.
L’Essere, non rappresentando che la prima affermazione, e cioè la determinazione più primordiale, non è affatto il principio supremo di ogni cosa, ma bensì, lo ripetiamo, il principio della manifestazione, e ciò mostra chiaramente quanto limitato sia il punto di vista metafisico di coloro che pretendono di ridurlo esclusivamente alla sola «ontologia»: trascurare il Non-Essere, significa escludere proprio tutto ciò che è veramente e puramente metafisico. Per concludere questo argomento, diremo che l’Essere è di per se uno, e che l’Esistenza universale, manifestazione integrale delle sue possibilità, è dunque unica nella sua essenza e nella sua natura intima; ma né l’unità dell’Essere, né l’«unicità» dell’Esistenza escludono la molteplicità dei modi di manifestazione, da cui deriva l’indefinità dei gradi dell’Esistenza nell’ordine generale e cosmico, e quella degli stati dell’essere nell’ordine dell’esistenza particolari [Non diciamo individuali poiché nel caso in questione sono compresi anche gli stati di manifestazione informale, che sono sopraindividuali]. La teoria degli stati molteplici non è dunque per nulla in contraddizione con l’unità dell’Essere, né in contraddizione con «l’unicità» dell’Esistenza, che su questa unità è fondata, poiché né l’una né l’altra sono infirmate dalla molteplicità; ne deriva che la constatazione della molteplicità, lungi dal contraddire l’affermazione dell’unità o dell’opporsi comunque ad essa, trova in tutto il dominio dell’Essere il solo fondamento valido che possa esserle dato, sia ontologicamente che metafisicamente.

VI – CONSIDERAZIONI ANALOGICHE TRATTE DALLO STUDIO DELLO STATO DI SOGNO

La natura dei rapporti fra l’unità e la molteplicità, che nel capitolo precedente era stata esaminata sotto un aspetto puramente metafisico, può essere più agevolmente compresa attraverso alcune considerazioni analogiche che daremo qui a titolo di esempio, o meglio di «illustrazione» [Infatti non esiste un esempio possibile, nel vero senso della parola, per quanto riguarda le verità metafisiche, dal momento che queste sono essenzialmente universali e non suscettibili di particolarizzazioni, mentre al contrario ogni esempio è necessariamente di ordine più meno particolare], e che serviranno a chiarire in che senso ed in quale misura si può dire che l’esistenza della molteplicità è illusoria rispetto all’unità, pur avendo, naturalmente, tutta la realtà che la sua natura comporta. Attingeremo queste particolari considerazioni dallo studio dello stato di sogno, che è una delle modalità di manifestazione dell’essere umano corrispondente alla parte sottile (e cioè non corporea) nella sua individualità. In esso, quest’essere produce un mondo che procede interamente da lui, ed i cui oggetti consistono esclusivamente in concezioni mentali (in opposizione alle percezioni sensorie dello stato di veglia), utilizzando combinazioni di idee rivestite di forme sottili; combinazioni che a loro volta dipendono sostanzialmente dalla forma sottile dell’individuo stesso, per il quale gli oggetti ideali del sogno sono altrettante modificazioni accidentali e secondarie [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XIII].
L’uomo, nello stato di sogno, si trova quindi in un mondo completamente immaginato da lui [La parola «immaginato» va intesa qui nel senso stretto del termine, dato che si tratta proprio essenzialmente di una formazione di immagini nel sogno] i cui elementi sono dunque tratti dalla sua individualità più o meno estesa (nelle sue modalità extra-corporee), come altrettante «forme illusorie» (mayavi-rupa) [v. L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. X], e questo avviene anche senza che egli ne abbia attualmente una coscienza chiara e distinta. Qualunque sia il punto di partenza, interiore o esteriore che dà al sogno una certa direzione (ed evidentemente questa distinzione determina già una grande differenza), gli avvenimenti che vi si svolgono non possono risultare che dalla combinazione degli elementi contenuti, almeno potenzialmente ed in quanto suscettibili di un certo genere di realizzazione, nella comprensione integrale dell’individuo; e se questi elementi , che sono modificazioni dell’individuo, sono in moltitudine indefinita, la varietà di tali combinazioni sarà del pari indefinita. Il sogno, infatti, deve essere considerato come un modo di realizzazione per quelle possibilità che, pur appartenendo al dominio dell’individualità umana, non possono, per determinati motivi, realizzarsi in modo corporeo; citiamo a titolo di esempio le forme di esseri differenti dall’uomo, ma appartenenti al suo stesso mondo, forme che egli possiede virtualmente in sé in ragione della posizione centrale da lui occupata in questo mondo [v. Il Simbolismo della Croce, cap. II]. È evidente che queste forme possono essere realizzate dall’essere umano solo nello stato sottile, ed il sogno è il mezzo più consueto, e potremmo anche dire più normale, fra tutti quelli che gli permettono di identificarsi con altri esseri senza cessare contemporaneamente di essere sé stesso; citeremo a questo proposito un testo taoista: «Racconta Ciuang-Ze: sognai una notte di essere una farfalla che volava contenta della sua sorte; poi mi svegliai ed ero Ciuang-Ze. Chi sono, in realtà? Una farfalla che sogna di essere Ciuang-Ze, o Ciuang-Ze che immagina di essere stato una farfalla? Ci sono nel mio caso due individui ideali? O vi è stata una trasformazione reale da un essere ad un altro? Né l’una, né l’altra cosa: vi sono state due modificazioni irreali dell’essere unico, della norma universale nella quale tutti gli esseri, in tutti loro stati, sono Uno» [v. Ciuang-Ze, cap. II].
L’individuo che, nel corso di un sogno, partecipa in modo attivo all’azione che in esso si svolge per effetto della sua facoltà immaginativa, rappresenta dunque una parte nella modalità extra-corporea del suo essere corrispondente attualmente allo stato della sua coscienza chiaramente manifestata, o a quella che potremmo chiamare la zona centrale di questa coscienza. È tuttavia evidente che nello stesso tempo egli «recita» anche tutte le altre parti, sia in altre modalità, sia, quanto meno, in modificazioni secondarie della stessa modalità; e queste modificazioni appartengono anch’esse alla sua coscienza individuale se non nel suo stato attuale, limitato, di manifestazione in quanto coscienza, almeno in una qualsiasi delle sue possibilità di manifestazione, le quali, nel loro insieme, abbracciano un campo indefinitamente più esteso. Naturalmente tutte queste parti appaiono secondarie rispetto a quella che l’individuo recita nel sogno, e che corrisponde a quella a cui la sua coscienza attuale è direttamente interessata; inoltre, poiché i vari elementi del sogno non esistono che grazie a lui, si può dire che essi sono reali solo in quanto partecipano alla sua esistenza: trovano dunque la loro realizzazione come modificazioni dell’individuo, il quale non cessa per questo di essere se stesso, indipendentemente da queste modificazioni, che non infirmano per nulla l’essenza della sua individualità.
Inoltre, se l’individuo è cosciente di sognare, se cioè è cosciente che tutti gli avvenimenti che si svolgono in questo stato non hanno altra realtà che quella che lui stesso attribuisce loro, non ne sarà per niente influenzato, pur essendo nello stesso tempo attore e spettatore, anzi, proprio perché non smetterà di essere spettatore per divenire attore; la concezione e la realizzazione non saranno infatti più separate della sua coscienza individuale, pervenuta ad un grado di sviluppo sufficiente da abbracciare sinteticamente tutte le modificazioni attuali dell’individualità. In caso contrario, le stesse modificazioni possono ancora realizzarsi, ma l’individuo è portato ad attribuire agli avvenimenti una realtà esteriore a se stesso, poiché la coscienza non ricollega più direttamente la loro realizzazione alla concezione che ne è l’effetto. L’individuo è dunque vittima di un’illusione, la cui causa risiede in lui nella misura in cui egli è portato ad attribuire ad essa una realtà effettiva, e quest’illusione consiste nel separare la molteplicità di questi avvenimenti dal loro principio immediato, e cioè dalla sua stessa unità individuale [Le stesse osservazioni valgono per il caso dell’allucinazione, nel quale l’errore non consiste, come si pensa comunemente, nella attribuire una realtà all’oggetto percepito, essendo evidentemente possibile percepire qualcosa che non esiste affatto, ma piuttosto nell’attribuirgli un modo di realtà differente da quello che gli è proprio; si tratta in sostanza di una confusione fra l’ordine della manifestazione sottile e quello della manifestazione corporea].
L’esempio che abbiamo fornito chiarifica assai bene il caso di una molteplicità esistente in unità senza che questa ne sia infirmata, ed anche se l’unità considerata è soltanto relativa, trattandosi di un individuo, essa svolge tuttavia, in rapporto a questa molteplicità, una parte analoga a quella svolta dall’unità vera e primordiale in rapporto alla manifestazione universale. Avremmo anche potuto considerare altri esempi analoghi, come quello della percezione allo stato di veglia [Leibniz ha definito la percezione come «l’espressione della molteplicità nell’unità» (multorum in uno expressio) e, e questo è giusto, ma a condizione di tener valide le riserve che abbiamo già indicato a proposito dell’unità che conviene attribuire alla «sostanza individuale» (v. Il Simbolismo della Croce, cap. III)], ma il caso che abbiamo testé esaminato presenta sugli altri il vantaggio di non prestarsi a contestazioni di sorta, proprio in ragione delle condizioni che caratterizzano il mondo del sogno, nel quale l’uomo appare isolato da ogni cosa esteriore o supposta tale [Con questa restrizione non intendiamo affatto negare l’esteriorità degli oggetti sensibili, che è una conseguenza della loro spazialità; vogliamo solo precisare che in questo caso non interviene la questione del grado di realtà attribuibile a questa esteriorità], che costituisce il mondo sensibile. La realtà del mondo del sogno deriva unicamente dalla coscienza individuale considerata in tutto il suo sviluppo, e in tutte le possibilità di manifestazione che essa comprende; e se vogliamo esaminare questa coscienza, così come abbiamo fatto, nel suo insieme, ritroveremo in essa non solo il mondo del sogno, ma anche tutti gli altri elementi della manifestazione individuale appartenenti ognuna delle modalità contenute nell’estensione integrale della possibilità individuale.
Se, per analogia, consideriamo ora la manifestazione universale, è indispensabile tuttavia notare subito che, se è vero che la coscienza individuale forma la realtà di quel mondo particolare costituito da tutte le sue modalità possibili, vi è sì qualcosa di analogo che forma la realtà dell’Universo manifestato, ma non si può assolutamente fare di questo «qualcosa» l’equivalente di una facoltà individuale o di una particolare condizione di esistenza, a rischio di cadere in una concezione eminentemente antropomorfa ed antimetafisica. Si tratta dunque di qualcosa che non è né la coscienza né il pensiero, ma di cui la coscienza ed il pensiero sono modi particolari di manifestazione; e poiché esistono indefiniti modi possibili di manifestazione, e tutti possono essere considerati quali attributi diretti o indiretti dell’Essere universale, analoghi in certo qual modo alle funzioni svolte nell’individuo che sogna dalle sue modalità, o dalle sue molteplici modificazioni (ed abbiamo visto come queste non infirmino per nulla la sua natura più profonda), non vi è nessuna ragione per voler ridurre tutti questi attributi ad uno solo o ad alcuni di essi; se una ragione può esservi, essa può solo derivare da quella tendenza alla sistematicità che abbiamo già denunciato come incompatibile con l’universalità della metafisica.
Questi attributi vanno dunque considerati come differenti aspetti del principio unico che costituisce la realtà di tutta la manifestazione, in quanto rappresenta l’Essere stesso; e le differenze esistenti fra loro hanno valore solo dal punto di vista della manifestazione differenziata, non certo dal punto di vista del principio o dell’Essere, che è l’unità vera e primordiale. Tutto questo vale anche per la distinzione più universale che ha luogo nell’Essere, quella dell’«essenza» e della «sostanza», che rappresentano per così dire i due poli di tutta la manifestazione; ed a fortiori è valido per aspetti più particolari, e quindi più contingenti e secondari [Alludiamo soprattutto alla distinzione fra «spirito» e «materia», come viene posta, dopo Cartesio, da tutta la filosofia occidentale, che tende normalmente a costringere ogni realtà nei due termini di questa distinzione, o anche solo in uno di essi, incapace com’è di superarli (v. Introduzione allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. VIII)]: qualunque sia il loro valore per l’individuo che li esamina dal suo punto di vista particolare, essi non sono, in realtà, che semplici «accidenti» dell’universo.

VII. LE POSSIBILITÀ DELLA COSCIENZA INDIVIDUALE

Quanto abbiamo detto circa lo stato di sogno ci induce ad esaminare, in linea generale, le possibilità che l’essere umano comporta nei limiti della sua individualità, ed in particolare le possibilità di questo stato individuale considerato sotto l’aspetto della coscienza , che costituisce una delle sue principali caratteristiche. Teniamo subito a precisare, tuttavia, che non intendiamo esaminare il problema da un punto di vista psicologico, anche se questo punto di vista trova proprio la sua definizione nella coscienza, considerata come carattere inerente a certe categorie di fenomeni che si producono nell’essere umano, o, se vogliamo usare un linguaggio più figurato, come «ciò che contiene» questi fenomeni [Il rapporto fra contenente e contenuto è, in senso letterale, un rapporto spaziale; ma va inteso qui in modo del tutto figurato, poiché stiamo parlando di qualcosa che è privo di estensione e non situato nello spazio]. Lo psicologo, d’altra parte, non ha nessuna ragione per approfondire lo studio della natura di questa coscienza; egli è come il geometra, che non ricerca quale può essere la natura dello spazio: esso è infatti per lui un dato incontestabile, che deve essere considerato semplicemente come ciò che contiene tutte le forme che egli studia. In altre parole, la psicologia deve preoccuparsi unicamente di quella che chiameremo «coscienza fenomenica», e cioè della coscienza considerata solo in rapporto ai fenomeni, senza chiedersi se essa sia o non sia espressione di qualcosa di altro ordine che, per definizione, non dipende in alcun modo dal dominio psicologico [Ne deriva che la psicologia, checché ne pensino certuni, ha esattamente lo stesso carattere di relatività che troviamo in ogni altra scienza specializzata e contingente, e non ha particolari rapporti con la metafisica; non bisogna d’altronde dimenticare che essa è una scienza del tutto moderna e «profana», priva di qualsiasi legame con le conoscenze tradizionali].
Per noi, la coscienza è tutt’altra cosa che per lo psicologo: essa non contiene affatto uno stato d’essere particolare, e non è d’altronde il solo carattere distintivo dello stato individuale umano; nello studio stesso di questo stato, o meglio, nello studio delle sue modalità extra-corporee, non è dunque ammissibile che tutto si riduca ad un punto di vista più o meno simile a quello psicologico. Potremmo piuttosto dire che la coscienza è una condizione dell’esistenza in certi stati, senza però che vi sia stretta analogia, per esempio, con le condizioni dell’esistenza corporea; o più esattamente, e anche se prima vista può sembrare strano, che essa è una «ragion d’essere» per gli stati in questione, dal momento che per suo tramite l’essere individuale partecipa dell’intelligenza universale (la Buddhi della dottrina indù) [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. VII]: ma, naturalmente, è alla facoltà mentale individuale (manas) che essa è inerente nella sua forma determinata (in quanto ahankara) [ibid. cap. VIII], e di conseguenza, in altri stati, la stessa partecipazione dell’essere all’Intelligenza universale può tradursi in tutt’altro modo. La coscienza, della quale non pretendiamo affatto dare una definizione completa, cosa del resto abbastanza inutile [Capita in effetti che per cose di cui ciascuno ha di per sé una nozione sufficientemente chiara, come in questo caso, la definizione appaia più complessa ed oscura della cosa stessa], è dunque qualcosa che appartiene in modo particolare sia allo stato umano, sia ad altri stati individuali più o meno analoghi a questo; non è quindi un principio universale, ed anche se è parte integrante ed elemento necessario dell’Esistenza universale, lo è esattamente come ogni altra condizione appartenente ad un qualsiasi stato dell’essere, e non è dotata a questo proposito di alcun privilegio particolare, non più di quanto gli stati a cui essa si riferisce lo siano nei confronti degli altri stati [Sull’equivalenza di tutti gli stati in rapporto all’essere totale, v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXVII].
Nonostante queste restrizioni, la coscienza, nello stato individuale umano, è suscettibile, al pari di questo stato, di un’estensione indefinita; ed anche in un uomo normale, che non abbia cioè sviluppato in modo particolare le sue modalità extra-corporee, essa si estende in effetti assai più in là di quanto generalmente si creda. Per lo più si tende ad ammettere che la coscienza attualmente chiara e distinta non sia tutta la coscienza, ma che ne rappresenti una parte più o meno vasta, e che quanto non è compreso in essa possa essere di gran lunga più esteso e complesso; tuttavia, benché gli psicologi riconoscano volentieri l’esistenza di una «subcoscienza» (ed abusino anzi talvolta di queste espressioni, servendosene come d’un troppo comodo mezzo di spiegazione ed utilizzandola indistintamente per tutto ciò che non riescono a classificare fra i fenomeni che studiano), hanno sempre dimenticato di considerare correlativamente una «supercoscienza» [Anche se alcuni psicologi impiegano talvolta il termine di «supercoscienza», intendono con ciò nient’altro che la coscienza normale chiara e distinta, in opposizione alla «subcoscienza»; in tal caso si tratta solo di un neologismo perfettamente inutile. Al contrario, ciò che noi intendiamo per «supercoscienza» è veramente simmetrico alla «subcoscienza» in rapporto alla coscienza ordinaria, il che esclude ogni equivoco su questo termine], come se la coscienza non potesse prolungarsi sia in alto che in basso; ammesso che le nozioni relative di «alto» e di «basso» possano avere un senso in questo caso, ed è verosimile che debbano averne uno, se non altro dal particolare punto di vista degli psicologi. Osserviamo d’altra parte che sia la «subcoscienza» che la «supercoscienza» in realtà non sono che semplici prolungamenti della coscienza: essi non ci consentono comunque di uscire dal suo dominio integrale, né possono, di conseguenza, essere assimilati in alcun modo all’«incosciente», che è fuori della coscienza, ma dovranno, al contrario, essere compresi nella nozione completa di coscienza individuale.
In queste condizioni, la coscienza individuale offre già una spiegazione per quanto accade dal punto di vista del mentale nel dominio dell’individualità, senza che vi sia bisogno di ricorrere ad ipotesi inverosimili, come quella della «pluralità delle coscienze», che taluni sono arrivati ad intendere addirittura nel senso di un «polipsichismo» letterale. È pur vero che l’«unità dell’io», come viene intesa di solito, è anch’essa illusoria; ma ciò dipende proprio dal fatto che la pluralità e la complessità sono caratteristiche proprie della coscienza, che si prolunga in modalità talvolta assai remote ed oscure, come ad esempio quelle costituenti la cosiddetta «coscienza organica» [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XVIII], e come la maggior parte di quelle che si manifestano nello stato di sogno.
D’altra parte, l’estensione indefinita della coscienza rende completamente inutili certe strane teorie anche recenti, che la loro stessa impossibilità metafisica è sufficiente a confutare pienamente. Tralasciando le varie ipotesi «reincarnazionistiche», e tutte quelle che ad esse si possono ricollegare in quanto implicano una limitazione alla Possibilità universale, poiché su di esse abbiamo già avuto occasione di esprimerci con tutti gli sviluppi necessari [L’erreur spirite, 2° parte, cap. vi; ed anche Il Simbolismo della Croce, cap. XV], ci riferiamo ora in particolare all’ipotesi «trasformista», che del resto ha già nel frattempo perduto molta dell’immeritata considerazione di cui aveva goduto durante un certo periodo [Il successo di questa teoria fu dovuto d’altronde a ragioni di ordine tutt’altro che scientifico, e in diretto rapporto con il suo carattere antitradizionale; proprio per questo è facile prevedere che, anche quando nessun biologo vi crederà più, essa sussisterà ancora a lungo nei manuali scolastici e nelle opere di divulgazione]. Non vogliamo dilungarci troppo su questo punto, ma ci teniamo ad osservare intanto che la pretesa legge del «parallelismo dell’ontogenia e della filogenia», che rappresenta uno dei principali postulati del «trasformismo», suppone, prima di tutto, che esista davvero una «filogenia», o «filiazione della specie», ciò che non è per nulla un fatto, bensì un’ipotesi assolutamente gratuita; tutto quello che si può constatare, è che l’individuo realizza determinate forme organiche nel corso del suo sviluppo embrionale, e dal momento che le realizza in questo modo, non si vede perché dovrebbe averle già realizzate in altre «esistenze successive», o perché la specie a cui appartiene dovrebbe averlo fatto per lui nel corso di uno sviluppo al quale, in quanto individuo, egli non ha in alcun modo partecipato. Ma a parte le considerazioni embriologiche, la concezione degli stati molteplici ci permette di considerare tutti questi stati come esistenti simultaneamente in uno stesso essere, e non più come percorribili successivamente, nel corso di una «discendenza» che dovrebbe passare, non solo da un essere ad un altro, ma addirittura da una specie ad un’altra [Naturalmente l’impossibilità del cambiamento di specie non si applica che alle vere specie, le quali non sempre coincidono con quelle che figurano nelle classificazioni degli zoologi e dei botanici: questi infatti possono a torto considerare come specie distinte quelle che in realtà non sono altro che razze o varietà di una stessa specie]. L’unità della specie è, in un certo senso, ancora più vera ed essenziale di quella dell’individuo [Questa affermazione può di primo acchito sembrare abbastanza paradossale, ma si giustifica sufficientemente se si considera il caso dei vegetali e di certi animali detti inferiori, come i polipi ed i vermi, per i quali è quasi impossibile stabilire se ci si trova in presenza di uno o più individui, e determinare in quale misura questi individui sono veramente distinti gli uni dagli altri; al contrario, i limiti della specie appaiono invece sempre abbastanza nettamente], e ciò si oppone alla realtà di questa presunta «discendenza»; l’essere, al contrario, pur appartenendo come individuo ad una specie determinata, è tuttavia indipendente da questa specie nei suoi stati extra-individuali, e, anche senza andare così lontano, può addirittura essere legato ad altre specie da semplici prolungamenti della sua individualità. Per esempio, come abbiamo già detto, l’uomo che riveste una certa forma in sogno, fa per ciò stesso di questa forma una modalità secondaria della sua individualità, e la realizza quindi effettivamente nell’unico modo in cui essa è realizzabile. Sotto questo aspetto, esistono anche altri prolungamenti individuali di ordine alquanto differente, e che presentano un carattere più che altro organico; ma questo argomento rischierebbe di allontanarci troppo dal nostro tema attuale, e preferiamo limitarci a questo solo accenno [v. L’erreur spirite, pagg. 249-52]. D’altronde, per dimostrare in modo completo e dettagliato la falsità delle teorie «trasformiste» bisognerebbe rifarsi soprattutto allo studio della natura della specie e delle sue condizioni di esistenza, cosa che non intendiamo fare, almeno per ora; teniamo tuttavia ad osservare che la simultaneità degli stati molteplici basta già da sola a provare l’inutilità di queste ipotesi, del tutto insostenibili da un punto di vista metafisico, e la cui mancanza di principio comporta necessariamente in esse falsità di fatto.
Insistiamo in modo particolare sulla simultaneità degli stati dell’essere, perché se non concepissimo come simultanee nel principio anche le modificazioni individuali che si realizzano in modo successivo nell’ordine della manifestazione, esse avrebbero un’esistenza puramente illusoria. Non solo il «dispiegarsi delle forme» nel manifestato, a condizione di conservargli il suo carattere del tutto relativo e contingente, è perfettamente compatibile con la «permanente attualità» di tutte le cose nel non-manifestato, ma, se non vi fosse alcun principio al cambiamento, il cambiamento stesso, come abbiamo già spiegato, sarebbe privo di ogni realtà.

VIII. IL MENTALE ELEMENTO CARATTERISTICO DELL’INDIVIDUALITÀ UMANA
Abbiamo già detto che la coscienza, intesa in senso generale, non è, a rigore, una caratteristica particolare dell’essere umano, tale da caratterizzarlo rispetto a tutti gli altri; esiste infatti, nel dominio stesso della manifestazione corporea (che è solo una porzione limitata del grado dell’Esistenza a cui appartiene l’essere umano), ed in quella parte della manifestazione corporea che ci è più vicina e che costituisce l’esistenza terrestre, una moltitudine di esseri che non appartengono alla specie umana, e sono tuttavia sotto molti aspetti talmente simili ad essa, da non poter essere ritenuti privi di coscienza, anche se questa viene considerata semplicemente in senso psicologico. È il caso, ad esempio, di tutte le specie animali, che, a gradi differenti, manifestamente ne sono fornite; e, a questo proposito, solo il più cieco spirito di sistematicità ha potuto dare luogo ad una teoria tanto contraria all’evidenza, quanto quella cartesiana degli «animali-macchine». Si potrebbe andare anche più in là, e considerare la possibilità, per gli altri regni organici , e addirittura per tutti gli esseri del mondo corporeo, di altre forme di coscienza, legate più particolarmente alla condizione vitale; ma queste considerazioni rischierebbe di allontanarci, per ora, dallo svolgimento di questo nostro studio.
In ogni caso, esiste certamente una forma che, fra tutte quelle che la coscienza può assumere, è propriamente umana, e questa forma determinata (ahankara o «coscienza dell’io») è quella inerente alla facoltà che chiameremo «mentale», e cioè propriamente a quel «senso interno» che è designato in sanscrito col nome di manas, e che è veramente la caratteristica dell’individualità umana [v. L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, cap. VIII. Impieghiamo di preferenza il termine «mentale» perché la sua radice è la medesima del sanscrito «manas», che si ritrova nel latino «mens», nel inglese «mind», ecc.; d’altronde i numerosi accostamenti linguistici che si possono facilmente operare sulla radice «man» o «men», ed i vari significati delle parole da essa formate, mostrano chiaramente che si tratta di un elemento considerato come essenzialmente caratteristico dell’essere umano, dato che la sua designazione serve spesso a definirlo; e questo implica che tale essere è sufficientemente definito dalla presenza dell’elemento in questione]. Questa facoltà è qualcosa di molto particolare, e, come abbiamo già ampiamente spiegato in altre occasioni, deve essere ben distinta dall’intelletto puro, dal momento che quest’ultimo, per il suo carattere di universalità, deve al contrario sussistere in tutti gli esseri ed in tutti gli stati, indipendentemente dalle modalità attraverso le quali la sua esistenza viene a manifestarsi; e non si dovrà vedere nel «mentale» che quello che è veramente, e cioè, per usare il linguaggio dei logici, una «differenza specifica» pura e semplice, tale comunque da non attribuire di per sé all’uomo una superiorità effettiva sugli altri esseri.
D’altra parte non è possibile parlare di superiorità o di inferiorità di un essere in rapporto ad altri, se non per quanto esso ha in comune con questi, e che implichi non una differenza di natura, ma di gradi; il «mentale» invece è precisamente ciò che vi è di caratteristico nell’e uomo, e che questi non ha in comune con gli altri esseri non umani, ed è quindi un elemento che non può in alcun modo servire come termine di raffronto. L’Essere umano può certamente venire considerato, entro certi limiti, superiore o inferiore ad altri sotto determinati aspetti (e si tratterà pur sempre di una superiorità o inferiorità relativa); ma la considerazione del «mentale», quanto interviene come «differenza» nella definizione dell’essere umano, non potrà mai fornire un termine di paragone.
Per esprimere quanto abbiamo detto con altre parole, possiamo semplicemente riprendere la definizione aristotelica e scolastica dell’uomo come «animale ragionevole»: se lo si definisce così, e se si considera la ragione, o meglio la «razionalità», come una «differentia animalis», per usare un termine caro ai logici del medioevo, è evidente che la sua presenza non può costituire nient’altro che un semplice carattere distintivo. Questa differenza si applica infatti solo nel regno animale, per caratterizzare la specie umana distinguendola essenzialmente dalle altre; ma non si applica agli esseri che a questo regno non appartengono (possiamo prendere come esempio gli angeli), i quali dunque non possono in nessun caso essere definiti «ragionevoli»: questa distinzione conferma solo che la loro natura è differente da quella dell’uomo, senza tuttavia implicare inferiorità nei suoi confronti [Vedremo in seguito che gli stati «angelici» sono propriamente gli stati sopra-individuali della manifestazione, e cioè quelli appartenenti alla manifestazione informale]. È chiaro, d’altronde, che la definizione or ora ricordata vale solo se si considera l’uomo come essere individuale, poiché solo in quanto tale egli appartiene al regno animale [Ricordiamo che la specie appartiene essenzialmente all’ordine della manifestazione individuale, che essa è strettamente immanente ad un certo grado definito dell’Esistenza universale, e che, di conseguenza, l’essere non le è legato che nello stato corrispondente a questo grado]; ed è proprio come essere individuale che l’uomo è caratterizzato dalla ragione, o meglio dal «mentale», se vogliamo comprendere in questo termine più esteso la ragione propriamente detta, che ne è un aspetto, anzi, l’aspetto principale.
Quando, parlando del «mentale», o della ragione, o del pensiero nella modalità umana, diciamo che sono facoltà individuali, non vogliamo con queste intendere che siano facoltà proprie di un individuo particolare, o che siano essenzialmente e radicalmente differenti in ogni individuo (che sarebbe poi lo stesso, poiché in tal caso non si potrebbe veramente dire che sono le stesse facoltà, e si tratterebbe di un’assimilazione puramente verbale), bensì che si tratta di facoltà appartenenti agli individui in quanto tali, e che non avrebbero più alcuna ragione di essere quando fossero considerate al di fuori di un certo stato individuale e di determinate condizioni che definiscono l’esistenza in questo stato. È in questo senso che la ragione, ad esempio, è propriamente una facoltà individuale umana, poiché, pur essendo essenzialmente comune a tutti gli uomini (non servirebbe , in caso contrario, a definire la natura umana), e differendo da un individuo ad un altro solo per applicazione ed in modalità secondaria, nondimeno essa appartiene agli uomini in quanto individui, e solo in quanto individui, essendo proprio la caratteristica dell’individualità umana; e solo in virtù di una trasposizione puramente analogica sarà lecito considerare in qualche modo una sua corrispondenza nell’universale. Dunque, ed insistiamo su questo punto per eliminare ogni confusione possibile, se si vuole utilizzare la parola «ragione» sia in senso universale che in senso individuale, bisognerà aver cura di ricordare che l’impiego di questo termine nei due casi (e sarebbe comunque meglio cercare di evitarlo) non indica che una semplice analogia, esprimente la rifrazione di un principio universale (Buddhi) nella ordine mentale umano e [Nell’ordine cosmico, la rifrazione corrispondente dello stesso principio trova la sua espressione nel Manu della tradizione indù (v. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 3° parte, cap. v, e L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. IV)]. Solo in virtù di questa analogia, che a nessun grado potrà mai essere identificazione, è lecito in un certo senso, e con la riserva testé fatta, chiamare «ragione» anche ciò che nell’ordine universale corrisponde, per trasposizione, alla ragione umana, o in altre parole, ciò di cui essa è espressione, come traduzione e manifestazione, in modo individualizzato [Secondo la filosofia scolastica una trasposizione di questo genere deve essere effettuata ogni qualvolta si passi dagli attributi degli esseri creati agli attributi divini, di modo che solo analogicamente gli stessi termini possono essere applicati agli uni e agli altri, è semplicemente per indicare che in Dio vi è il principio di tutte le qualità che si trovano nell’uomo o in qualsiasi altro essere, a condizione, naturalmente, che si tratti di qualità realmente positive, e non di quelle che, essendo conseguenza di una privazione o di una limitazione, hanno un’esistenza puramente negativa, quali che siano le apparenze, e che sono dunque prive di principio]. D’altronde, anche considerando i principi fondamentali della conoscenza come espressioni di una specie di «ragione universale», intesa nel senso del Logos platonico ed alessandrino, essi vanno comunque enormemente al di là del dominio particolare della ragione individuale, che è esclusivamente una facoltà di conoscenza distintiva e discorsiva [Conoscenza discorsiva, per opposizione a conoscenza intuitiva, è in fondo sinonimo di conoscenza indiretta e mediata; non si tratta quindi che di conoscenza relativa, in certo qual modo per riflesso o per partecipazione; per il suo carattere di esteriorità, che lascia sussistere la dualità del soggetto e dell’oggetto, essa non può trovare in se stessa la garanzia della sua verità, ma deve riceverla dai principi che le sono superiori, ed appartengono all’ordine della conoscenza intuitiva, e cioè puramente intellettuale], e ad essa si impongono come dati di ordine trascendente, condizionanti necessariamente ogni attività mentale. Ciò è del resto è evidente se si pensa che questi principi non presuppongono alcuna esistenza particolare, ma, al contrario, vengono presupposti logicamente quali premesse, anche se implicite, di ogni affermazione vera di ordine contingente. Si può anche dire che, proprio in virtù della loro universalità, questi principi, che dominano ogni logica possibile, hanno una portata che va molto al di là del dominio della logica, poiché questa, almeno nella sua accezione normale e filosofica [Facciamo questa restrizione perché la logica, sia nelle civiltà orientali che in quella dell’India e della Cina, presenta un carattere differente, che ne fa un «punto di vista» (darshana) della dottrina totale, ed un’autentica «scienza tradizionale» (v. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 3° parte, cap. IX] non è, e non può essere altro, che un’applicazione più o meno cosciente dei principi universali alle condizioni particolari dell’intendimento umano individualizzato [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XVII].
Queste precisazioni, anche se non del tutto attinenti al soggetto principale del nostro studio, ci sono apparse necessarie per aiutare a capire perché diciamo che il «mentale» è una facoltà o una proprietà dell’individuo in quanto tale, e perché questa proprietà rappresenta l’elemento essenzialmente caratteristico dello stato umano. Non a caso, d’altronde, quando parliamo di «facoltà» lasciamo a questo termine un’accezione piuttosto vaga ed indeterminata; questo lo rende suscettibile di applicazioni di carattere più generale, in casi in cui non si avrebbe alcun vantaggio ad utilizzare termini più indicativi, perché più nettamente definiti.
Circa la distinzione essenziale fra il «mentale» e l’intelletto puro, ricorderemo solo che l’intelletto, nel passaggio dall’universale all’individuale, produce la coscienza; questa tuttavia, appartenendo all’ordine individuale, non è per nulla identica al principio intellettuale, pur procedendo immediatamente da esso come risultante del intersezione di questo principio con il dominio particolare di determinate condizioni di esistenza, dalle quali è definita l’individualità considerata [Quest’intersezione è, come abbiamo già fatto osservare, quella del «Raggio Celeste» col suo piano di riflessione; v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXIV]. D’altra parte, il pensiero individuale, che è di ordine formale, appartiene alla facoltà mentale, direttamente unità alla coscienza (ed in questa facoltà, come risulta da quanto abbiamo detto, sono parimenti comprese sia la ragione, che la memoria e l’immaginazione), e non è per nulla inerente all’intelletto trascendente (Buddhi), le cui attribuzioni sono essenzialmente informali [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, capp. VII e VIII]. Ciò mostra chiaramente come questa facoltà mentale sia in realtà qualcosa di limitato e particolare, pur essendo suscettibile di sviluppare possibilità indefinite; essa è dunque qualcosa di assai meno, ed anche di assai più importante di quanto ci mostrino le concezioni troppo semplificate, per non dire semplicistiche, in uso presso gli psicologi occidentali [È quanto abbiamo già detto, a proposito delle possibilità dell’«io» e del suo posto nell’essere totale].

IX. LA GERARCHIA DELLE FACOLTÀ INDIVIDUALI
La distinzione profonda fra l’intelletto ed il mentale sta essenzialmente, come abbiamo visto, nell’essere il primo d’ordine universale ed il secondo invece di ordine puramente individuale; essi non possono dunque applicarsi né allo stesso dominio né agli stessi oggetti, ed anzi, a questo proposito, è importante distinguere ancora fra l’idea informale ed il pensiero formale, che ne è l’espressione mentale, e cioè la traduzione in modo individuale. L’attività dell’essere in questi due ordini differenti, l’intellettuale ed il mentale, pur esercitandosi simultaneamente, può arrivare a dissociarsi al punto da renderli completamente indipendenti l’uno dall’altro per quanto riguarda le loro rispettive manifestazioni; ma non insisteremo oltre su questo argomento, che ulteriormente approfondito ci porterebbe inevitabilmente ad abbandonare il punto di vista strettamente teorico a cui intendiamo ora attenerci.
D’altra parte, il principio psichico che caratterizza l’individualità umana possiede una doppia natura: oltre all’elemento mentale propriamente detto, comprende anche l’elemento sentimentale o emotivo che, pur avendo evidentemente le sue radici nell’ambito della coscienza individuale, è separato dall’intelletto ancor più profondamente, ed è anche più legato alle condizioni organiche, quindi più prossimo al mondo corporeo o sensibile. Questa nuova distinzione, benché stabilita all’interno del dominio comprendente tutto ciò che è propriamente individuale, è quindi meno fondamentale della precedente, ma è tuttavia ancora molto più profonda di quanto non si pensi; e molti errori ed incomprensioni della filosofia occidentale, in modo particolare per quanto riguarda la psicologia [Appositamente impieghiamo quest’espressione, poiché alcuni invece di dare alla psicologia il suo legittimo posto fra le scienze di specializzazione, pretendono di farne il punto di partenza ed il fondamento di tutta una pseudo-metafisica che, naturalmente, non ha alcun valore], derivano dal fatto che, nonostante le apparenze, essa ignora tale distinzione almeno quanto ignora quella fra intelletto e mentale, o, nella migliore delle ipotesi, ne misconosce la portata reale. Inoltre la distinzione, o meglio la separazione di queste facoltà, dimostra chiaramente la presenza di una molteplicità di stati, anzi, più precisamente, la presenza di modalità differenti nell’individuo stesso, benché questi nel suo insieme non costituisca che un solo stato dell’essere totale; l’analogia della parte e del tutto si ripresenta dunque ancora una volta alla nostra attenzione [v. Il Simbolismo della Croce, capp. II e III].
Ci troviamo perciò dinanzi ad una gerarchia di facoltà individuali e ad una gerarchia di stati dell’essere totale, tenendo tuttavia presente che le facoltà dell’individuo, pur essendo indefinite nella loro estensione possibile, sono in numero definito, ed il solo fatto di suddividerle, dissociandole più o meno profondamente le une dalle altre, evidentemente non aggiunge loro alcuna nuova potenzialità; mentre invece, come abbiamo detto, gli stati dell’essere sono veramente, per loro stessa natura, in moltitudine indefinita, dovendo gli stati manifestati corrispondere a tutti i gradi dell’Esistenza universale. Tutto ciò equivale a dire che, nell’ordine individuale, la distinzione non si opera che per divisione, mentre nell’ordine extra-individuale essa avviene per moltiplicazione; e, qui come in ogni caso, l’analogia è dunque ancora applicabile in senso inverso [v. Il Simbolismo della Croce, cap. II e XXIX].
Non intendiamo, giunti a questo punto, esaminare in modo particolare e dettagliato le varie facoltà individuali, e le loro rispettive funzioni o attribuzioni; uno studio di questo genere avrebbe necessariamente un carattere psicologico, almeno per quanto riguarda la teoria di questa facoltà, che d’altra parte è sufficiente elencare per conoscerne immediatamente l’oggetto, a condizione naturalmente di limitarsi agli aspetti generali, i soliti d’altronde che ci interessino presentemente. Poiché le analisi più o meno sottili non hanno niente a che vedere con la metafisica, e poiché, del resto, sono tanto più vane quanto più sono sottili, le abbandoniamo volentieri ai filosofi, che mostrano invece di compiacersene; né desideriamo trattare in modo completo la questione della costituzione dell’essere umano: lo abbiamo già fatto in altra sede [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta], e questo ci dispensa da più ampi sviluppi su questo argomento, che è di secondaria importanza se paragonato al soggetto di cui ci stiamo occupando. In conclusione, se abbiamo creduto necessario accennare brevemente alla gerarchia delle facoltà individuali, è solo perché essa permette di avere un’idea più chiara circa gli stati molteplici, dandone per così dire un’immagine ridotta, compresa nei limiti della possibilità individuale umana.
Quest’immagine può essere considerata esatta, per quanto possibile, solo se si tiene conto delle riserve che abbiamo formulato circa l’applicazione dell’analogia; inoltre, poiché essa risulterà tanto migliore quanto meno sarà limitata, sarà utile comprendervi sia la nozione generale della gerarchia delle facoltà, sia la considerazione dei vari prolungamenti dell’individualità a cui abbiamo accennato precedentemente.
D’altra parte questi prolungamenti, che sono di vari ordini, possono ancora rientrare nelle suddivisioni della gerarchia generale; alcuni di essi, anzi, essendo di natura per così dire organica, possono venire considerati semplicemente d’ordine corporeo, a condizione però di attribuire anche a quest’ordine qualcosa di psichico: e ciò trova la sua giustificazione nel fatto che la manifestazione corporea è come avvolta e compenetrata dalla manifestazione sottile, nella quale ha il suo principio immediato. In realtà non è il caso di separare l’ordine corporeo dagli altri ordini individuali (e cioè dalle altre modalità appartenenti allo stesso stato individuale considerato nell’integralità della sua estensione) più di quanto non convenga creare separazioni fra questi ultimi, poiché appartiene allo stesso livello nell’insieme dell’Esistenza universale, e quindi nella totalità degli stati dell’essere; ma è doveroso osservare che mentre tutte le altre distinzioni sono state trascurate o dimenticate, questa ha preso un’importanza esagerata a causa del dualismo «spirito-materia», la cui concezione ha prevalso, per varie ragioni, nelle tendenze filosofiche di tutto l’Occidente moderno [v. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. VIII; e L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. V. Come abbiamo già ricordato, è innanzitutto a Cartesio che bisogna far risalire l’origine e la responsabilità di questo dualismo, anche se occorre riconoscere che le sue concezioni hanno avuto successo soprattutto in grazia al fatto che rappresentano in fondo l’espressione schematizzata di tendenze preesistenti, e propriamente caratteristiche dello spirito moderno (v. La crisi del Mondo moderno)].

X. I CONFINI DELL’INDEFINITO
Abbiamo finora parlato di una gerarchia di facoltà individuali: vogliamo ancora precisare che queste facoltà sono tutte comprese nell’estensione di uno stesso ed unico stato dell’essere totale, e cioè in un piano orizzontale della rappresentazione geometrica dell’essere che abbiamo esposto in un nostro precedente studio, mentre la gerarchia dei vari stati è caratterizzata dalla loro sovrapposizione secondo la direzione dell’asse verticale di questa stessa rappresentazione. La prima di queste due gerarchie non occupa quindi, propriamente parlando, nessun posto nella seconda, poiché nel suo insieme essa si riduce ad un solo punto (il punto di incontro dell’asse verticale con il piano corrispondente allo stato considerato); in altri termini la differenza delle modalità individuali, non riferendosi che al senso dell’«ampiezza», è rigorosamente nulla nel senso dell’«esaltazione» [Circa il significato di questi termini, ispirati all’esoterismo islamico, v. Il Simbolismo della Croce, cap. III].
Non bisogna d’altronde dimenticare che l’«ampiezza», nello sviluppo integrale dell’essere, è altrettanto indefinita quanto l’«esaltazione»; ed è questo che ci permette di parlare di un’indefinità di possibilità per ogni stato, senza che ciò tuttavia comporti un’assenza di limiti. Pur considerando questo punto sufficientemente chiarito con la distinzione fra l’Infinito e l’indefinito, potremmo tuttavia prendere in considerazione un’altra raffigurazione geometrica, alla quale ancora non abbiamo accennato: in un piano orizzontale qualsiasi i confini dell’indefinito sono dati dal cerchio-limite a cui certi matematici hanno dato il nome, d’altronde assurdo, di «retta all’infinito» [Questa denominazione proviene dal fatto che un cerchio il cui raggio cresce indefinitamente ha per limite una retta; ed in geometria analitica l’equazione del cerchio-limite, e cioè del luogo dei punti del piano indefinitamente lontani dal centro (origine delle coordinate) si riduce effettivamente ad un’equazione di 1° grado, che è quella di una retta]; questo cerchio non è chiuso in alcuno dei suoi punti, essendo un cerchio massimo (sezione ottenuta con un piano diametrale) dello sferoide indefinito il cui sviluppo comprende l’integralità dell’estensione che rappresenta la totalità dell’essere [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XX].
Se ora consideriamo, nel loro piano, le modificazioni individuali facenti parte di un ciclo qualsiasi esteriore al centro (cioè, non identificantesi con questo seguendo il raggio centripeto) e che si propaghino indefinitamente in modo vibratorio, il loro arrivo al cerchio-limite (seguendo il raggio centrifugo) corrisponde al loro punto massimo di dispersione, ma nello stesso tempo segna anche necessariamente il punto d’arresto del loro movimento centrifugo. Questo movimento, indefinito in tutti i sensi, rappresenta la molteplicità dei punti di vista parziali, al di fuori dell’unità del punto di vista centrale, da cui, nondimeno, tutti procedono come raggi emessi dal centro comune, il quale costituisce pertanto la loro unità essenziale e fondamentale, anche se attualmente non realizzata rispetto alla loro via di esteriorizzazione graduale, contingente e multiforme, nell’indefinità della manifestazione.
Noi parliamo di esteriorizzazione ponendoci dal punto di vista della manifestazione; ma non bisogna dimenticare che ogni esteriorizzazione è, in quanto tale, essenzialmente illusoria; infatti, come abbiamo già detto, la molteplicità, che è contenuta nell’unità senza che questa ne sia peraltro infirmata, non può mai realmente uscirne, poiché ciò implicherebbe una «alterazione» (in senso etimologico) in contraddizione con l’immutabilità principiale [Circa la distinzione fra l’«interiore» e l’«esteriore», ed i limiti entro i quali essa è valida, v. ibid. cap. XXIX].
I punti di vista parziali che in moltitudine indefinita costituiscono tutte le modalità di un essere in ogni suo stato, non sono dunque che aspetti frammentari del punto di vista centrale (ed anche questo modo di concepirli è in fondo illusorio, poiché il punto di vista centrale è in realtà essenzialmente indivisibile, l’unità essendo senza parti), e la loro «reintegrazione» nell’unità del punto di vista centrale e principiale altro non è che un’«integrazione» nel senso matematico del termine: il che significa che in realtà questi elementi non sono mai stati veramente separati dalla loro somma, e non possono essere considerati tali che per pura astrazione. È vero che non sempre questa astrazione viene effettuata coscientemente, trattandosi di una conseguenza necessaria del fatto che le facoltà individuali sono limitate ad una particolare modalità, la sola attualmente realizzata dall’essere che si pone da uno qualsiasi dei punti di vista parziali dei quali abbiamo parlato.
Le osservazioni testé fatte possono aiutare a far capire come bisogna considerare i confini dell’indefinito, e come la loro realizzazione sia un fattore importante dell’unificazione effettiva dell’essere [Ciò va posto in relazione con quanto abbiamo già avuto occasione di affermare: è nella pienezza dell’espansione che si ottiene la perfetta omogeneità; ed inversamente, l’estrema distinzione si realizza unicamente nell’estrema universalità (atto v. Il Simbolismo della Croce, cap. XX)]. Dobbiamo d’altronde riconoscere che la loro concezione, anche solo teorica, non è priva di difficoltà, e così deve essere normalmente dal momento che i confini dell’indefinito sono talmente lontani da essere persi di vista, da sfuggire cioè alla comprensione delle nostre facoltà, o perlomeno all’esercizio ordinario delle loro funzioni; ma poiché anche queste facoltà sono suscettibili di un’estensione indefinita, non è per loro natura che esse non giungono all’indefinito, ma unicamente a causa dei limiti che il grado attuale di sviluppo pone alla maggior parte degli esseri umani; non sussiste dunque alcuna impossibilità a questa concezione, che d’altronde non esce dall’ordine delle possibilità individuali. Comunque sia, per aggiungere all’argomento maggiori precisazioni bisognerebbe, per esempio, considerare più particolarmente le condizioni speciali di un certo stato di esistenza, o meglio di una certa modalità come quella che costituisce l’esistenza corporea, ciò che non possiamo fare nei limiti del presente studio; rimanderemo dunque il lettore, come abbiamo già dovuto fare altre volte, al trattato che ci proponiamo di dedicare completamente alle condizioni dell’esistenza corporea.

XI. PRINCIPI DI DISTINZIONE FRA GLI STATI DELL’ESSERE
Nell’esaminare in modo particolare l’essere umano, abbiamo fin qui considerato soprattutto l’estensione della possibilità individuale, che costituisce d’altronde lo stato propriamente umano; ma l’essere che possiede questo stato possiede anche, almeno virtualmente, tutti gli altri, poiché, in caso contrario, non si potrebbe parlare di essere totale. Se consideriamo tutti questi stati nei loro rapporti con lo stato individuale umano, possiamo classificarli in «pre-umani» e «post-umani», senza voler tuttavia suggerire con l’impiego di questi termini l’idea di una successione temporale; non possiamo infatti parlare di «prima» e di «poi» che in senso del tutto simbolico [L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XVII. Questo simbolismo temporale è tuttavia di uso costante nella teoria dei cicli, sia che questa venga applicata all’insieme degli esseri, che a ciascuno di essi in particolare; i cicli cosmici non sono altro che gli stati o gradi dell’Esistenza universale, o le loro modalità secondarie quando si tratta di cicli subordinati o più ridotti, che in tal caso presentano d’altronde fasi corrispondenti a quelle dei cicli più estesi nei quali si integrano, in virtù di quella analogia della parte e del tutto di cui abbiamo già parlato], poiché nei vari cicli di sviluppo dell’essere l’ordine di conseguenza è puramente logico, o meglio logico ed ontologico nello stesso tempo: metafisicamente, infatti, e cioè dal punto di vista principiale, tutti questi cicli sono essenzialmente simultanei, e non divengono successivi se non accidentalmente, per così dire, ed in virtù di certe particolari condizioni di esistenza. Insistiamo ancora sul fatto che la concezione di una condizione temporale, per generalizzata che sia, non è applicabile che a certi cicli ed a certi stati particolari quali lo stato umano, o a determinate modalità di questo stato, come ad esempio la modalità corporea (alcuni fra i prolungamenti dell’individualità umana possono infatti sfuggire al tempo, senza per questo uscire dall’ordine delle possibilità individuali), e non può in alcun modo intervenire nella totalizzazione dell’essere [Questo è vero non solo per il tempo, ma anche per la «durata» considerata, secondo certe concezioni, come comprendente, oltre al tempo, tutti gli altri modi possibili di successione, e cioè tutte le condizioni che, in altri stati di esistenza, possono corrispondere analogicamente a quello che è il tempo nello stato umano (v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXX)].
La stessa osservazione vale per la condizione spaziale, o per qualunque altra fra le condizioni a cui siamo attualmente sottoposti in quanto esseri individuali, e per quelle alle quali sono sottoposti tutti gli altri stati di manifestazione compresi nell’integralità del dominio dell’Esistenza universale.
È certamente legittimo stabilire, come abbiamo fatto, una distinzione nell’insieme degli stati dell’essere riferendoli allo stato umano, e definirli come logicamente anteriori o posteriori, ed abbiamo spiegato fin dall’inizio le ragioni che giustificano tale distinzione; ma si tratta pur sempre di un punto di vista ancora molto particolare, ed il fatto che presentemente ce ne serviamo non deve illuderci sulla sua importanza; così, quando non sia proprio indispensabile attenervisi, è meglio ricorrere ad un principio di distinzione di ordine più generale, che presenti un carattere più fondamentale, senza comunque mai dimenticare che ogni distinzione è necessariamente qualcosa di contingente.
La distinzione più principiale di tutte, se così possiamo esprimerci, e suscettibile di un’applicazione più universale, è quella fra gli stati di manifestazione e gli stati di non-manifestazione, che in effetti abbiamo posto prima di ogni altra sin dall’inizio del presente studio, perché è di importanza capitale per tutto l’insieme della teoria degli stati molteplici. Può tuttavia accadere che si debba talvolta considerare un’altra distinzione di portata più ridotta, come quella che si può stabilire, ad esempio, riferendosi non più alla manifestazione universale nella sua integralità, ma semplicemente ad una delle condizioni generali o speciali d’esistenza che ci sono conosciute: divideremo allora gli stati dell’essere in due categorie a seconda che essi siano o no soggetti alla condizione di cui si tratta, ed in ogni caso gli stati di non-manifestazione, essendo incondizionati, rientreranno necessariamente nella seconda di queste categorie, quella la cui determinazione è puramente negativa.
Avremmo dunque, da una parte, gli stati compresi in un dominio determinato, più o meno esteso, e dall’altra tutto il resto, e cioè tutti gli stati che sono al di fuori di questo dominio; da quanto abbiamo detto risulta quindi evidente una certa asimmetria, o una sproporzione, fra queste due categorie, di cui solo la prima in realtà è delimitata, e questo vale qualunque sia l’elemento caratterizzato che serve a determinarla [v. L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. II]. Volendo fornire una rappresentazione geometrica di quanto abbiamo esposto, possiamo, data in un piano una curva chiusa, considerare le due regioni del piano da essa definite, una all’interno della curva stessa, che la inviluppa e la delimita e l’altra all’esterno; la prima di queste due regioni è definita, mentre la seconda è indefinita. Le stesse considerazioni si applicano ad una superficie chiusa, situata nello spazio a tre dimensioni che abbiamo assunto come simbolo della totalità dell’essere; ma è necessario osservare che mentre in questo caso una delle regioni è rigorosamente definita (poiché, anche se è costituita da un numero indefinito di punti, è pur sempre una superficie chiusa), nella suddivisione degli stati dell’essere la categoria che è suscettibile di una determinazione positiva, e quindi di una delimitazione effettiva, comporta invece possibilità di sviluppo indefinito, per ristretta che sia rispetto all’insieme. Per ovviare all’imperfezione di questa rappresentazione geometrica, è sufficiente eliminare la restrizione che abbiamo imposto considerando il rapporto fra una superficie chiusa e una superficie non chiusa: ai confini dell’indefinito, infatti, una linea o una superficie qualsiasi possono sempre essere considerate limiti di una curva o di una superficie chiusa [Come, ad esempio, i limiti di una circonferenza o di una sfera sono rispettivamente una retta ed un piano, quando si suppone che i rispettivi raggi crescano indefinitamente], e potremo dire che esse dividono il piano o lo spazio in due regioni indefinite come estensione, di cui una sola, tuttavia, è condizionata dalla determinazione positiva risultante dalle proprietà della curva o della superficie considerata.
Se ora vogliamo stabilire una distinzione confrontando l’insieme degli stati con uno qualunque di essi, sia questo lo stato umano o un altro, il principio determinante è di ordine diverso da quello che abbiamo indicato, poiché non è più possibile ridursi puramente e semplicemente all’affermazione o alla negazione di una certa condizione [È evidente che la negazione di una condizione, e cioè di una determinazione o limitazione, ha carattere di positività dal punto di vista della realtà assoluta, come d’altronde abbiamo spiegato a proposito dell’impiego dei termini di forma negativa]. Geometricamente, bisogna allora considerare lo spazio come diviso in due regioni dal piano che rappresenta lo stato preso come base o termine di paragone: esse corrispondono rispettivamente a due categorie, che presentano allora una sorta di simmetria o di equivalenza che non avevano nel caso precedente. Questa distinzione è quella da noi già esposta, nella sua forma più generale, a proposito della teoria indù dei tre «guna» [v. Il Simbolismo della Croce, cap. V]: il piano che serve di base è, in linea generale, indeterminato, e rappresenta quindi uno stato condizionato qualsiasi per cui solo secondariamente può rappresentare lo stato umano, quando ci si voglia porre dal punto di vista di questo stato particolare.
Può tuttavia essere utile, per facilitare una corretta applicazione dell’analogia, estendere questa rappresentazione a tutti i casi possibili, compresi quelli per i quali essa non appare direttamente utilizzabile, date le considerazioni precedenti. A tale scopo, è sufficiente immaginare come piano di base quello corrispondente alla distinzione che si stabilisce, indipendentemente dal principio che la determina: la porzione di spazio posto al di sotto di questo piano potrà rappresentare tutto ciò che soggiace alla determinazione considerata, e quella posta al di sopra rappresenterà quindi ciò che non rientra nei limiti di questa stessa determinazione.
Il solo inconveniente di questa rappresentazione è che le due regioni dello spazio sembrano essere ugualmente indefinite, e con le stesse caratteristiche; tale simmetria cessa però di esistere quando si consideri il piano di separazione come limite di una sfera il cui centro è indefinitamente lontano in direzione discendente, e questo ci riconduce alla prima rappresentazione, poiché si tratta di un caso particolare di quella riduzione ad una superficie chiusa a cui facevamo allusione poco fa. È sufficiente comunque ricordare che in tal caso l’apparenza di simmetria è dovuta unicamente ad una certa imperfezione del simbolo impiegato; e d’altronde, se ciò può essere utile, si può sempre passare da una rappresentazione all’altra, poiché, proprio per quell’inevitabile imperfezione dovuta alla natura delle cose che sovente abbiamo fatto notare, una sola rappresentazione è generalmente insufficiente per rendere integralmente (o almeno senz’altra riserva che per ciò che è inesprimibile) una concezione di ordine analogo a quella che abbiamo illustrato.
Anche se in un modo o nell’altro si dividono gli stati dell’essere in due categorie, è chiaro che tutto ciò non comporta traccia alcuna di dualismo, poiché questa divisione avviene in base ad un principio unico, come lo è ad esempio una certa condizione di esistenza, ed in realtà non vi è che una sola determinazione che viene volta a volta considerata positivamente e negativamente. Per eliminare d’altronde ogni sospetto di dualismo, per ingiustificato che sia, basterà ancora fare osservare che tutte queste distinzioni, lungi dall’essere irriducibili, non esistono che dal punto di vista del tutto relativo in cui vengono stabilite, ed acquistano questa esistenza contingente, l’unica di cui esse siano suscettibili, nella misura in cui noi stessi gliela conferiamo con la nostra concezione.
Benché il punto di vista di tutta la manifestazione sia evidentemente più universale, esso è in fondo ancora del tutto relativo, dal momento che la manifestazione stessa è puramente contingente; il nostro ragionamento si applica dunque anche alla distinzione che noi abbiamo considerato come la più fondamentale e la più vicina all’ordine principiale, quella riguardante gli stati di manifestazione e gli stati di non-manifestazione, come d’altronde abbiamo già voluto precisare parlando dell’Essere e del Non-Essere.

XII. I DUE CAOS

Fra le distinzioni che, tenendo presente quanto abbiamo esposto nel capitolo precedente, si fondano su una particolare condizione di esistenza, una delle più importanti, e potremmo anzi dire la più importante di tutte, è quella esistente fra gli stati formali e gli stati informali, poiché metafisicamente essa non è altro che un aspetto della distinzione fra l’individuale e l’universale, tenendo presente che quest’ultimo comprende, come abbiamo già spiegato in altra sede [L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. II], sia la non-manifestazione che la manifestazione informale.
La forma è infatti una condizione particolare di certi modi di manifestazione, e proprio per questa ragione essa rappresenta una delle condizioni dell’esistenza nello stato umano; ma, in linea generale, è anche il genere di limite che propriamente caratterizza l’esistenza individuale ed in certo qual modo la definisce. Teniamo d’altronde a precisare fin d’ora che questa forma non è necessariamente determinata dallo spazio e dal tempo, che sono caratteristiche peculiari della modalità corporea umana; ciò infatti non può certamente avvenire per gli stati non umani, che non sono sottoposti allo spazio ed al tempo, ma bensì ad altre condizioni [ibid., cap. XIX, e V. Il Simbolismo della Croce, cap. i. «La forma geometricamente parlando, è il contorno: è l’apparenza del Limite (Matgioi, La voie métaphysique, p. 85). La si potrebbe definire un insieme di tendenze in direzione, per analogia con l’equazione tangenziale di una curva; naturalmente questa concezione, avente carattere geometrico, può anche essere riferita al campo qualitativo. Segnaliamo ancora che si possono fare intervenire queste considerazioni nello studio di quegli elementi non individualizzati (ma non sopra-individuali) del «mondo intermediario», che la tradizione estremo-orientale chiama genericamente «influenze erranti», ed in quanto concerne la loro possibilità di individualizzazione temporanea e fuggevole, in determinazione di direzione, attraverso il contatto con una coscienza umana (v. L’Erreur Spirite, pp. 119-123)]. La forma non è dunque una condizione comune a tutti i modi della manifestazione, ma appartiene bensì a tutti i suoi modi individuali, che si differenziano fra di loro per la presenza di qualche altra condizione più particolare; ciò che costituisce la natura dell’individuo come tale è il fatto che esso è «rivestito» di una forma, è tutto ciò che è nel suo dominio, come ad esempio il pensiero individuale nell’uomo, è dunque formale [È certamente in questo modo che bisogna interpretare Aristotele, quando afferma che «l’uomo (in quanto individuo) non pensa mai senza immagini», vale a dire senza forme]. La distinzione che abbiamo ricordato è perciò in fondo quella esistente fra gli stati individuali e gli stati non-individuali (o sopra-individuali), i primi comprendenti nel loro insieme tutte le possibilità formali, i secondi tutte le possibilità informali.
L’insieme delle possibilità formali e l’insieme delle possibilità informali sono simbolicamente rappresentati da quella che le varie dottrine tradizionali chiamano rispettivamente «Acque inferiori» ed «Acque superiori» [La separazione delle Acque, da un punto di vista cosmogonico, si trova descritta all’inizio della «Genesi» (I, 6-7)]; le Acque, in linea generale e nel senso più esteso del termine, rappresentano la Possibilità intesa come «perfezione passiva» [cfr. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. V], ossia il principio plastico universale che, nell’Essere, si determina come «sostanza» (aspetto potenziale dell’Essere); in quest’ultimo caso si tratta evidentemente della totalità delle possibilità di manifestazione, trovandosi le possibilità di non-manifestazione aldilà dell’Essere [v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXIII]. La «superficie delle Acque», e cioè il loro piano di separazione, che altrove abbiamo descritto come piano di riflessione del «Raggio Celeste» [Il Simbolismo della Croce, cap. XXIV. È anche, nel simbolismo indù, il piano secondo cui il Brahmanda, o «Uovo del Mondo», al centro nel quale risiede Hiranyagarbha, si divide in due metà; quest’«Uovo del Mondo» è d’altronde sovente rappresentato come galleggiante sulla superficie delle Acque Primordiali (v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, capp. V e XIII)], segna dunque lo stato nel quale si opera il passaggio dall’individuale all’universale, ed il ben noto simbolo del «camminare sulle Acque» raffigura appunto la liberazione dalla forma, o dalla condizione individuale [Narayana, che è uno dei nomi di Vishnu nella tradizione indù, significa letteralmente: «Colui che cammina sulle Acque»; il rapporto analogico con la tradizione evangelica è evidente. Naturalmente, qui come in altri casi, il significato simbolico non sminuisce affatto il carattere storico che nel secondo caso ha il fatto considerato, fatto che, del resto, è tanto meno contestabile in quanto la sua realizzazione, corrispondente all’acquisizione di un determinato grado di iniziazione effettiva, è assai più frequente di quanto non si creda]. L’essere che ha raggiunto lo stato per lui corrispondente alla «superficie delle Acque» senza ancora elevarsi al di sopra di queste, si trova come sospeso fra due caos, nei quali all’inizio tutto è confusione ed oscurità (tamas), fino al momento in cui si produce l’illuminazione che ne determina l’organizzazione armonica col passaggio dalla potenza all’atto, e per mezzo della quale, come per il Fiat Lux cosmogonico, si stabilisce la gerarchia che dal caos darà origine all’ordine [v. Il Simbolismo della Croce, capp. XXIV e XXVII].
L’osservazione riguardante i due caos, corrispondenti al formale ed all’informale, è indispensabile alla comprensione di un gran numero di figurazioni simboliche e tradizionali [Da notare in particolare il simbolismo estremo-orientale del Drago, corrispondente in certo modo alla concezione teologica occidentale del Verbo come «luogo dei possibili» (v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XVI)], ed è per questo che ne abbiamo parlato: questo argomento, del resto, è già stato da noi esaurientemente trattato in un precedente nostro studio, ma i suoi legami con il tema che stiamo trattando sono tali da rendere indispensabile questi pur brevi accenni.

XIII. LE GERARCHIE SPIRITUALI

L’ordinamento in forma gerarchica degli stati molteplici nella realizzazione effettiva dell’essere totale permette di comprendere come bisogna considerare quelle che, da un punto di vista puramente metafisico, vengono normalmente definite col termine di «gerarchie spirituali». Con questo nome vengono di solito indicate gerarchie di esseri differenti dall’uomo e differenti fra loro, come se ogni grado fosse occupato da esseri particolari, limitati rispettivamente agli stati corrispondenti; ma la concezione degli stati molteplici ci dispensa evidentemente dal considerarli sotto questo aspetto, che può anche essere legittimo per la teologia o per altre scienze o speculazioni particolari, ma che non ha nulla di metafisico. L’esistenza di esseri extra-umani o sopra-umani, che, comunque vengano designati, possono evidentemente appartenere ad un’indefinità di sorte, ci interessa in fondo ben poco; abbiamo certamente buone ragioni per ammetterne l’esistenza, se non altro perché vediamo anche esseri non umani nel mondo che ci circonda, e devono quindi esistere negli altri stati esseri che non passano per la manifestazione umana (se non altro, quelli che in questo mondo sono rappresentati da tali individualità non umane), ma non abbiamo tuttavia alcun motivo di occuparcene più di quanto non ci occupiamo degli esseri infra-umani, che pure esistono, e che potrebbero dunque lo stesso titolo essere presi in esame. E dal momento che uno studio a carattere metafisico o pseudo-metafisico avente per oggetto la classificazione dettagliata degli esseri non umani appartenenti al mondo terrestre non è neppure lontanamente concepibile, non si vede perché ciò dovrebbe invece avvenire per esseri esistenti in altri mondi, e cioè occupanti altri stati che, anche se sono superiori rispetto al nostro, appartengono pur sempre al dominio della manifestazione universale. È tuttavia comprensibile che i filosofi, avendo sempre limitato l’essere ad un solo stato, e considerato l’uomo, nella sua individualità più o meno estesa, come un tutto a se stante, posti di fronte ad una concezione seppur vaga di altri gradi dell’Esistenza universale, non abbiamo potuto fare a meno di attribuire questi gradi ad esseri del tutto estranei a noi, salvo che per quanto è comune ad ogni essere; d’altro canto, la tendenza all’antropomorfismo li ha spesso portati ad esagerare quanto vi è di comune nelle nature, attribuendo loro facoltà non sono analoghe, ma simili o addirittura identiche a quelle appartenenti all’uomo individuale [Gli «stati angelici» sono gli stati sopra-individuali che costituiscono la manifestazione informale, ma non si può attribuire agli angeli nessuna facoltà di ordine puramente individuale: per esempio, come abbiamo già spiegato, non li possiamo supporre dotati di ragione, essendo questa una caratteristica esclusiva dell’individualità umana; essi non possono avere che un modo di intelligenza puramente intuitivo]. In realtà, gli stati di cui parliamo differiscono dallo stato umano incomparabilmente più di quanto nessun filosofo dell’Occidente moderno abbia mai potuto immaginare; ma tuttavia, e indipendentemente dagli esseri che attualmente li occupano, essi possono essere realizzati da ogni altro essere, ed anche da quello che è un essere umano in un altro stato della manifestazione; se così non fosse, come abbiamo già detto, non si potrebbe parlare di totalità di un essere, poiché questa totalità, per essere effettiva, deve comprendere necessariamente tutti gli stati di manifestazione (formale ed informale) e di non-manifestazione, realizzati secondo le possibilità dell’essere considerato. Abbiamo d’altronde osservato che tutto ciò che si dice teologicamente degli angeli può essere detto metafisicamente degli stati superiori dell’essere [L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. x. Il trattato «De Angelis» di San Tommaso D’Aquino è particolarmente indicativo a questo riguardo], è analogamente, nel simbolismo astrologico del Medio Evo, i «Cieli», e cioè le differenti sfere planetarie e stellari, non solo rappresentano questi stessi stati, ma anche i gradi iniziatici ai quali corrisponde la loro realizzazione [v. L’esoterismo di Dante]; ed ancora, nella tradizione indù i Deva e gli Asura rappresentano rispettivamente gli stati superiori ed inferiori rispetto allo stato umano [Il Simbolismo della Croce, cap. XXV]. Sia ben chiaro che tutto ciò non esclude ogni possibile modo di realizzazione per altri esseri, così come esistono modi di realizzazione propri all’essere umano (quando il suo stato individuale viene preso come base e punto di partenza per la realizzazione); ma questi modi, a noi estranei, non ci interessano, come non ci interessano tutte le forme che non saremo mai chiamati a realizzare (e prendiamo ad esempio le forme animali, vegetali e minerali del mondo corporeo) perché realizzate da altri esseri nell’ordine della manifestazione universale, la cui indefinità esclude ogni possibilità di ripetizione [v. ibid. cap. XV].
Ne risulta che per «gerarchie spirituali» non possiamo intendere altro che l’insieme degli stati dell’essere superiori all’individualità umana, e più particolarmente gli stati informali o sopra-individuali, che d’altronde dobbiamo considerare realizzabili, per l’essere che si trova nello stato umano, anche nel corso della sua esistenza corporea e terrestre. In effetti, questa realizzazione è essenzialmente implicita nella totalizzazione dell’essere, e cioè nella «Liberazione» (Moksha o Mukti) che scioglie l’essere da ogni suo legame con condizioni speciali di esistenza e che, non comportando ripartizioni di gradi, è sempre completa e perfetta, sia quando è ottenuta come «liberazione in vita» (Jivan-mukti) che nel caso della «liberazione al di là della forma» (videha-mukti), conformemente a quanto abbiamo già spiegato in un nostro precedente studio [L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XXIII]. Non può dunque esservi alcun grado spirituale superiore a quello dello Yogi, il quale essendo giunto alla «Liberazione», che è poi l’«Unione» (Yoga), o l’«Identità Suprema», non ha null’altro da ottenere; ma se il fine da raggiungere è uguale per tutti gli esseri, è anche vero che ciascuno lo raggiunge seguendo la sua «via personale», e quindi attraverso modalità suscettibili di indefinite variazioni. Da quanto abbiamo spiegato si può dunque capire come possano esservi, nel corso della realizzazione, molte e differenti tappe, percorribili successivamente o simultaneamente a seconda dei casi, le quali, riferendosi ancora a stati determinati, non devono tuttavia essere mai confuse con la liberazione totale che ne rappresenta il termine o il risultato ultimo [cfr. ibid. capp. XXI e XXI]: esse possono essere considerate come altrettanti gradi di queste «gerarchie spirituali», qualunque sia la classificazione che si vorrà eventualmente adottare per l’indefinità delle loro modalità possibili, classificazione che dipenderà naturalmente dal punto di vista che verrà assunto all’occasione [Poiché i diversi stati che queste «gerarchie spirituali» comportano sono realizzati dall’acquisizione di altrettanti gradi iniziatici effettivi, esse corrispondono a cio che l’esoterismo islamico chiama le «categorie dell’iniziazione» (Tartibut-tasawwuf); ricorderemo in modo particolare, a questo proposito, il trattato di Mohyiddin ibn Arabi che porta precisamente questo titolo].
È essenziale osservare, a questo punto, che i gradi di cui parliamo, e che rappresentano stati ancora contingenti e condizionati, metafisicamente non hanno in sé alcuna importanza, ma ne assumono una solo in funzione del fine unico a cui essi tendono, e ciò proprio perché li consideriamo come gradi, e rappresentano per così dire una preparazione. Non vi è d’altronde alcuna possibilità di paragone fra uno stato particolare, per elevato che sia, e lo stato totale ed incondizionato; non bisogna mai dimenticare che, rapportata all’Infinito, tutta la manifestazione è rigorosamente nulla e nulle devono essere evidentemente le differenze fra gli stati che di essa fanno parte, per considerevoli che siano in se stesse quando si prendono in esame i diversi stati condizionati di cui segnano la separazione. Se il passaggio a certi stati superiori può rappresentare, rispetto allo stato preso come punto di partenza, un avvio verso la «Liberazione», deve essere tuttavia ben chiaro che questa, una volta realizzata, implicherà sempre una discontinuità in rapporto allo stato nel quale si troverà attualmente l’essere che l’avrà ottenuta; e qualunque sia questo stato, non si tratterà di una discontinuità «più» o «meno» profonda, poiché in ogni caso fra lo stato dell’essere «non liberato «e lo stato dell’essere «liberato», non può esservi alcun rapporto simile a quelli esistenti fra i diversi stati condizionati [v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XX]. Proprio in virtù dell’equivalenza fra tutti gli stati di fronte all’Assoluto, quando la meta finale sia stata raggiunta in uno qualsiasi dei gradi di cui si è detto, non è affatto necessario che l’essere li abbia prima percorsi tutti distintamente; in quel momento egli li possiede tutti, per così dire, «in sovrappiù», come elementi integranti della sua totalizzazione. D’altra parte, l’essere che totalizza in sé tutti gli stati, può sempre evidentemente venire considerato nei suoi rapporti con uno qualsiasi di essi e come se effettivamente vi fosse «situato», benché in realtà si trovi al di là di tutti gli stati e li contenga tutti, lungi dal poter essere contenuto da questi. Potremmo anche dire che in tal caso si tratta semplicemente di aspetti diversi che in qualche modo rappresentano varie «funzioni» di quest’essere, il quale però non risulta per nulla modificato dalle loro condizioni, che per lui hanno ormai un’esistenza soltanto illusoria, poiché, essendo veramente «sè», egli gode di uno stato essenzialmente incondizionato. In questo modo dunque l’apparenza formale, o anche corporea, può ancora sussistere per l’essere che è « liberato in vita» (jivan-mukta) è che «durante la sua permanenza nel corpo non è vincolato dalle proprietà di questo, così come il firmamento non è vincolato da ciò che fluttua nel suo seno» [Atma-bodha di Shankaracharya (ed anche L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XXIII)]; ed esso permane «non vincolato» da tutte le possibili contingenze, qualunque sia lo stato, individuale o sopra-individuale, e cioè formale o informale, a cui queste si riferiscono nell’ordine della manifestazione, il quale non è, in fondo, che la somma di tutte le contingenze.

XIV. RISPOSTA ALLE OBIEZIONI RIGUARDANTI LA PLURALITÀ DEGLI ESSERI
Vi è ancora un punto, in ciò che abbiamo detto, che potrebbe prestarsi ad un’obiezione, anche se in realtà è già possibile trovare ad essa una risposta, se pure implicita, nel capitolo riguardante le «gerarchie spirituali». Possiamo porla in questi termini: poiché esiste un numero indefinito di modalità realizzate da esseri differenti, è possibile, in realtà, parlare di totalità per ciascun essere? Ad essa possiamo rispondere, per intanto, facendo osservare che l’obiezione posta in questi termini si applica evidentemente ai soli stati manifestati, poiché nel non-manifestato non è possibile praticare alcuna distinzione reale: infatti, dal punto di vista degli stati di non-manifestazione, ciò che appartiene ad un essere, appartiene anche a tutti quelli che hanno effettivamente realizzato questi stati. Se ora da questo stesso punto di vista si considera tutto l’insieme della manifestazione, esso non rappresenta, in virtù della sua contingenza, che un semplice «accidente» nel vero senso della parola, e quindi l’importanza di una qualunque sua modalità, considerata di per sé e «distintivamente», è rigorosamente nulla. Inoltre, poiché il non-manifestato contiene in sé il principio che costituisce la realtà profonda ed essenziale delle cose che esistono in un qualsiasi modo della manifestazione, principio senza il quale ciò che è manifestato non avrebbe che un’esistenza puramente illusoria, si può ben dire che l’essere giunto effettivamente allo stato di non-manifestazione possiede per questa ragione tutto il resto, e lo possiede veramente «in sovrappiù», ciò che d’altronde avviene, come abbiamo detto nel precedente capitolo, per tutti gli stati e gradi intermedi, senza che sia stato necessario percorrerli prima tutti distintamente.
Questa risposta, che prende in esame solo l’essere che ha raggiunto la realizzazione totale, è pienamente sufficiente dal punto di vista puramente metafisico, ed è anche la sola veramente sufficiente, poiché se non considerassimo l’essere in questo modo, e ci ponessimo in qualunque altro caso al di fuori di questo, non si potrebbe più parlare di totalità e l’obiezione stessa non avrebbe più ragione d’essere. Possiamo dunque dire, in sostanza, che sia in questo caso, sia nel caso di obiezioni concernenti l’esistenza della molteplicità, il manifestato in quanto tale (e cioè considerato sotto l’aspetto della distinzione che lo condiziona) è nullo rispetto al non-manifestato, e non esiste fra di essi termine alcuno di raffronto; ciò che è assolutamente reale (tutto il resto essendo illusorio, dotato cioè di una realtà derivata, e per così dire «partecipata»), è, anche per le possibilità che comportano la manifestazione, lo stato permanente ed incondizionato nel quale esse, principialmente e fondamentalmente, appartengono all’ordine della non-manifestazione.
A questo punto, pur sembrandoci sufficiente quanto abbiamo spiegato, desideriamo esaminare ancora un altro aspetto della questione nel quale verrà considerato l’essere che ha realizzato, non più la totalità del «Sé» incondizionato, ma solo l’integralità di un certo stato. In questo caso l’obiezione precedente può venire espresse nel seguente modo: come è possibile che un solo essere possieda quest’integralità, dal momento che lo stato di cui si tratta rappresenta un dominio comune ad un’indefinità di altri esseri, tutti egualmente soggetti alle condizioni che caratterizzano e determinano questo stato o modo di esistenza? Non si tratta più della stessa obiezione, ma purché si abbia cura di mantenere le esatte proporzioni fra i due casi, ci troviamo di fronte ad un’obiezione analoga, e la risposta sarà parimenti analoga: per l’essere che ha raggiunto effettivamente il punto di vista centrale dello stato considerato realizzandone così l’integralità, tutti gli altri punti di vista più o meno particolari non hanno più alcuna importanza, se presi distintamente, poiché egli li unifica tutti in un punto di vista centrale; è dunque nell’unità da esso rappresentata che d’ora in poi questi esisteranno per lui, e non più al di fuori di quest’unità, poiché l’esistenza della molteplicità fuori dell’unità è puramente illusoria. L’essere che ha realizzato l’integrità di uno stato ha fatto di sé il centro stesso di questo stato, e proprio in virtù della sua posizione centrale si diffonde ovunque, se così ci si può esprimere, irraggiandosi in esso [cfr. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XVI]: egli assimila a sé ciò che vi è contenuto facendone altrettante modalità secondarie di sé stesso [Il simbolo del «nutrimento» (anna) è frequentemente usato nelle Upanishad per designare tale assimilazione], comparabili all’incirca alle modalità che si realizzano durante lo stato di sogno, alle quali abbiamo accennato in un precedente capitolo. Ne consegue che l’essere in questione non è per nulla limitato, nella sua estensione, dall’esistenza che queste modalità, o alcune di esse, possono avere al di fuori di lui (l’espressione «al di fuori» non ha più d’altronde alcun senso nel caso in questione, al contrario di quanto avviene per gli altri esseri rimasti nella molteplicità non unificata) di virtù dell’esistenza simultanea di altri esseri nel medesimo stato; e, d’altra parte, l’esistenza di queste modalità in lui, non ne pregiudica affatto l’unità, anche se non si tratta che dell’unità ancora relativa che si realizza al centro di uno stato particolare. Questo stato è costituito tutto dall’irraggiarsi del suo centro [Tutto ciò è stato ampiamente spiegato nel nostro precedente studio sul simbolismo della Croce], ed ogni essere che si ponga effettivamente in questo centro diviene parimenti, perciò stesso, padrone dell’integralità di questo stato; è così che l’indifferenziazione principiale del non-manifestato si riflette nel manifestato, e deve essere d’altronde ben chiaro che questo riflesso, essendo nel manifestato, conserva sempre per questa ragione la relatività che è inerente ad ogni esistenza condizionata.
Ciò detto, si può ben comprendere come analoghe considerazioni si possono applicare a modalità che, per varie ragioni, siano comprese in un’unità ancora più relativa, come quella di un essere che non ha realizzato un certo stato che parzialmente, e non integralmente. Tale essere, e prendiamo ad esempio l’individuo umano, pur non avendo ancora raggiunto uno sviluppo completo nel senso dell’«ampiezza» (corrispondente al grado di esistenza nel quale è situato), ha tuttavia assimilato in misura più o meno completa tutto ciò di cui ha realmente preso coscienza nei limiti della sua attuale estensione; e le modalità accessorie che si è così aggregato, e che potranno evidentemente accrescersi costantemente e indefinitamente, costituiscono una parte molto importante di quei prolungamenti dell’individualità ai quali abbiamo più volte accennato.


XV. LA REALIZZAZIONE DELL’ESSERE PER MEZZO DELLA CONOSCENZA
Abbiamo appena detto che l’essere assimila più o meno completamente a se stesso tutto ciò di cui prende coscienza; la sola vera conoscenza, in qualsiasi campo, è infatti quella che ci permette di penetrare più o meno profondamente nella natura intima delle cose, ed i gradi della conoscenza consistono proprio in una penetrazione più o meno profonda ed in una assimilazione più o meno completa. In altri termini, non vi è vera conoscenza se non quando sia ha identificazione del soggetto con l’oggetto, o, volendo considerare il rapporto in senso inverso, assimilazione dell’oggetto da parte del soggetto [Deve essere ben chiaro che i termini «soggetto» ed «oggetto» vengono qui intesi nel loro senso più abituale, per designare rispettivamente «colui il quale conosce» e «ciò che è conosciuto» (v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XV)], e nella precisa misura in cui essa implica tale identificazione o assimilazione, i cui gradi di realizzazione rappresentano dunque i gradi della conoscenza stessa [Abbiamo già ricordato altre volte che Aristotele aveva posto come principio l’identificazione per mezzo della conoscenza, ma quest’affermazione , tanto nella sua opera che presso i suoi continuatori scolastici, sembra essere rimasta puramente teorica, non essendo mai stata tratta da essa alcuna conseguenza per ciò che riguarda la realizzazione metafisica (v. in particolare Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. X, e L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XXIV)]. Possiamo dunque affermare, nonostante tutte le discussioni filosofiche vanamente protrattesi su questo argomento [Alludiamo alle moderne «teorie della conoscenza», sull’inutilità delle quali ci siamo già espressi (v. Introduzione allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. x). Ritorneremo d’altronde fra poco su questo argomento], che ogni conoscenza vera ed effettiva è immediata, e che una conoscenza mediata non può avere che un valore puramente simbolico e rappresentativo [È la differenza che corre fra conoscenza intuitiva e conoscenza discorsiva; a questo proposito ci siamo già espressi con sufficiente chiarezza, e non ci pare il caso di insistere oltre]. Quanto alla possibilità stessa della conoscenza immediata, la teoria degli stati molteplici dell’essere la rende sufficientemente comprensibile: d’altra parte, il volerla mettere in dubbio, significa dar prova di una completa ignoranza dei più elementari principi metafisici poiché, senza questa conoscenza immediata, la metafisica stessa sarebbe del tutto impossibile [v. ibid. 2° parte, cap. v].
Abbiamo parlato di identificazione o di assimilazione, e possiamo impiegare questi due termini pressoché indifferentemente, anche se non si riferiscono esattamente allo stesso punto di vista; allo stesso modo si può considerare la conoscenza sia come diretta dal soggetto all’oggetto di cui prende coscienza (diremo anzi, più generalmente e per non limitarsi alle condizioni di certi stati, che egli fa dell’oggetto una modalità secondaria di se stesso), che dall’oggetto al soggetto che lo assimila a sé, ed a questo proposito potremo ricordare la definizione aristotelica della conoscenza, nel dominio sensibile, come «l’atto comune a colui che sente ed a ciò che sentito», che implica effettivamente questa reciprocità di relazione [Possiamo osservare anche che l’atto comune a due esseri, secondo il senso che Aristotele da alla parola «atto» è quello per mezzo del quale le due nature coincidono, e si identificano dunque almeno parzialmente]. Così, per quanto riguarda il dominio sensibile o corporeo, gli organi dei sensi sono, per l’essere individuale, le «vie d’ingresso» della conoscenza [v. L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XII; il simbolismo delle «bocche» di Vaishvanara si riferisce all’analogia fra l’assimilazione cognitiva e l’assimilazione nutritiva]; ma secondo un altro punto di vista, essi sono anche «vie d’uscita», proprio perché ogni conoscenza implica un atto di identificazione che parte dal soggetto conoscente e va verso l’oggetto conosciuto (o meglio, da conoscere), ciò che corrisponde, per l’essere individuale, all’emissione di una specie di prolungamento al di fuori di sé. È importante osservare, d’altronde, che questo prolungamento può essere considerato esteriore solo in rapporto alla nozione più ristretta di individualità, poiché è parte integrante dell’estensione dell’individualità stessa; l’essere che si estende così attraverso lo sviluppo delle sue possibilità, non ha affatto bisogno di uscire da se stesso, cosa che, in realtà, non avrebbe neppure senso, poiché un essere non può, in alcuna condizione, divenire altro che se stesso. Tutto questo, pertanto, risponde direttamente alla principale obiezione dei filosofi occidentali moderni contro la possibilità della conoscenza immediata; e da quanto abbiamo esposto si vede chiaramente come gli argomenti che hanno dato luogo a questa obiezione non siano dovuti che a pura e semplice incomprensione metafisica, la stessa che ha portato questi filosofi a misconoscere le possibilità dell’essere, anche individuale, nella sua estensione indefinita.
Tutto ciò è vero a fortiori se, uscendo dai limiti dell’individualità, lo applichiamo agli stati superiori: la conoscenza vera di questi stati implica il loro possesso effettivo, ed inversamente, è proprio attraverso la conoscenza che l’essere ne prende possesso, essendo questi due atti inseparabili l’uno dall’altro, anzi, non essendo in fondo che un unico atto. Naturalmente tutto questo non riguarda che la conoscenza immediata, quale, estendendosi alla totalità degli stati, comporta in sé la loro realizzazione, e rappresenta quindi «il solo mezzo per ottenere la Liberazione completa e finale» [Atma-bodha di Shankaracarya (v. ibid., cap XXII)]. Quanto alla conoscenza che è rimasta puramente teorica, è evidente che essa non può in nessun caso equivalere alla realizzazione, e non cogliendo l’oggetto in modo immediato, non può avere, come abbiamo detto, che un valore del tutto simbolico; essa rappresenta tuttavia una preparazione i indispensabile all’acquisizione di quella conoscenza effettiva che, sola, conduce alla realizzazione dell’essere totale.
Dobbiamo insistere in modo particolare, ogni qual volta se ne presenta l’occasione, sulla realizzazione dell’essere attraverso la conoscenza, poiché si tratta di una concezione del tutto estranea al pensiero occidentale moderno, il quale non va oltre la conoscenza teorica, o più esattamente, oltre una modesta parte di questa, e che oppone artificiosamente il «conoscere» all’«essere», come se queste non fossero le due facce inseparabili di una medesima e sola realtà [Rimandiamo ancora all’Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, 2° parte, cap. x]; non potrà mai esservi vera metafisica per chiunque non comprenda veramente che l’essere si realizza con la conoscenza, e che non può realizzarsi in altro modo. La dottrina metafisica pura non deve affatto preoccuparsi delle varie «teorie della conoscenza» che la filosofia moderna così penosamente elabora; al contrario, in codesti tentativi di sostituire una «teoria della conoscenza» alla conoscenza stessa è facile riconoscere una vera e propria confessione di impotenza, anche se certamente incosciente, da parte di questa filosofia, così completamente ignorante di ogni possibilità di realizzazione effettiva. La vera conoscenza, inoltre, essendo come abbiamo detto immediata, può essere più o meno completa, più o meno profonda, più o meno adeguata, ma non può essere essenzialmente «relativa» come questa stessa filosofia vorrebbe; o almeno, lo è unicamente in relazione alla relatività degli oggetti stessi. In altri termini, la conoscenza relativa, metafisicamente parlando, non è altro che la conoscenza del relativo e del contingente, e cioè quella che si applica al manifestato; ma il valore di questa conoscenza, all’interno del suo stesso dominio, è grande quanto lo consente la natura di questo dominio [Ciò si applica pure alla semplice conoscenza sensibile che è anche, nell’ordine inferiore e limitato che le è proprio, una conoscenza immediata, e dunque necessariamente vera], il che non corrisponde certamente a ciò che comunemente si intende per «relatività della conoscenza». A parte ogni considerazione circa i gradi di una conoscenza più o meno completa e profonda, e tenuto presente che questi gradi non ne modificano affatto la natura essenziale, la solo distinzione valida riguarda dunque la conoscenza immediata e la conoscenza mediata, e cioè, in altre parole, la conoscenza effettiva e la conoscenza simbolica.

XVI. CONOSCENZA E COSCIENZA

Una conseguenza importante di quanto abbiamo detto è che la conoscenza, intesa in senso assoluto ed in tutta la sua universalità, non è certamente un sinonimo o un equivalente della coscienza, essendo il dominio di questa coestensivo solo a quello di certi stati d’essere determinati; ciò significa che solo in questi stati, ed in nessun altro, la conoscenza si realizza per mezzo di ciò che può propriamente definirsi una «presa di coscienza». Se vogliamo quindi intendere la coscienza nel senso più generale possibile, senza limitarla alla sua forma specificamente umana, la definiremmo dunque come un modo contingente e particolare di conoscenza sottoposto a certe condizioni, o come una proprietà inerente all’essere considerato in rapporto a certi stati di manifestazione; e dal momento che essa non è neanche applicabile a tutto l’Essere, a maggior ragione non sarà certo possibile parlare di coscienza per gli stati incondizionati, e cioè per tutto ciò che è al di là dell’Essere. La conoscenza invece, considerata in se e indipendentemente dalle condizioni relative a qualche stato particolare, non può ammettere alcuna restrizione, e, per essere adeguata alla verità totale, deve essere coestensiva non solo all’Essere, ma alla Possibilità universale stessa, e sarà quindi infinita, come necessariamente lo è quest’ultima. Ciò significa che conoscenza e verità, così considerate metafisicamente, in fondo non sono altro che ciò che abbiamo chiamato, usando un’espressione assai imperfetta, «aspetti dell’Infinito»; ed è esattamente quanto afferma questa formula, che è una delle enunciazioni fondamentali del Vedanta: «Brahma è la Verità, la Conoscenza, l’Infinito» (Satyam Jnanam Anantam Brahma) [Taittiriyaka Upanishad, 2° Valli, 1° Anuvaka, shloka 1].
Quando abbiamo affermato che il «conoscere» e l’«essere» sono le due facce di una stessa realtà, abbiamo dunque inteso il termine «essere» in senso puramente analogico e simbolico, poiché la conoscenza va ben oltre l’Essere; ci veniamo dunque a trovare in un caso identico a quello relativo alla realizzazione dell’essere totale, dal momento che questa realizzazione implica essenzialmente la conoscenza totale ed assoluta, dalla quale non è in alcun modo distinta, sempre che si tratti naturalmente di conoscenza effettiva, e non di una semplice conoscenza teorica e rappresentativa. Ci sembra inoltre necessario, a questo punto, fornire una precisazione circa il modo in cui bisogna intendere l’identità metafisica del possibile e del reale: dal momento che tutto il possibile è realizzato dalla conoscenza, questa identità, in senso universale, rappresenta propriamente la verità, poiché questa può essere concepita precisamente come il perfetto adeguamento della conoscenza alla Possibilità totale [Questa formula si accorda con la definizione che San Tommaso D’Aquino da della verità come «adaequatio rei et intellectus»; ma ne è in certo qual modo una trasposizione, perché bisogna tenere conto di questa differenza capitale, che la dottrina scolastica si limita esclusivamente all’Essere, mentre ciò che abbiamo detto si applica anche a tutto ciò che è aldilà dell’Essere]. Evidenti sono le conseguenze che si possono trarre da quest’ultima osservazione, la cui portata è immensamente maggiore di quella che può avere una definizione semplicemente logica della verità, dal momento che pone in risalto tutta la differenza esistente fra l’intelletto universale ed incondizionato [Il termine «intelletto» in tal caso è trasporto al di là dell’essere e dunque, a più forte ragione, al di là del Buddhi, che pur essendo di ordine universale di informale, appartiene ancora al dominio della manifestazione, e non può quindi essere considerato come incondizionato] e l’intendimento umano con le sue condizioni individuali, ed anche, d’altro canto, tutta la differenza che separa il punto di vista della realizzazione da quello di una «teoria della conoscenza». La parola stessa «reale», che normalmente ha un’accezione assai vaga, se non addirittura equivoca (e questo accade necessariamente per tutti quei filosofi che vogliono mantenere la distinzione fra il possibile ed il reale) assume di conseguenza tutt’altro valore metafisico in relazione al punto di vista della realizzazione [Si osserverà d’altronde la stretta parentela, per nulla fortuita, fra il termine «reale» e «realizzazione»], e precisamente, proprio perché diviene un’espressione della permanenza assoluta, nell’Universale, di tutto ciò di cui un essere prende effettivo possesso per mezzo della totale realizzazione di se stesso [Questa stessa permanenza si esprime in altro modo, nel linguaggio teologico occidentale, con l’affermazione che i possibili sono eternamente nell’intendimento divino].
L’intelletto, in quanto principio universale, potrebbe essere concepito come ciò che contiene la conoscenza totale, purché si consideri questa espressione come un semplice modo di dire, poiché, in presenza della non-dualità, ciò che contiene e ciò che è contenuto sono assolutamente identici, dovendo essere l’uno e l’altro ugualmente infiniti, e poiché una «pluralità di infiniti», come abbiamo già detto, è un impossibilità. La Possibilità universale, che comprende tutto, non può essere compresa da alcunché se non da se stessa, ed essa comprende se stessa «senza tuttavia che questa comprensione esista in un modo qualsiasi» [Risalatu-l-Ahadiyah di Mohyiddin ibn Arabi (cfr. L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XV). Una traduzione del Trattato dell’Unità (Risalatu-l-Ahadiyah) è stata pubblicata nei fascicoli 7 e 8 della Rivista di Studi Tradizionali (N.d. Ed.)]; così non si può parlare correlativamente di intelletto e di conoscenza, in senso universale, che che nel modo da noi usato poco fa parlando dell’Infinito e della Possibilità, e cioè scorgendovi una stessa ed unica cosa, e considerandola simultaneamente sotto un aspetto attivo e sotto un aspetto passivo, ma senza tuttavia che ciò implichi alcuna distinzione reale. Non dobbiamo dunque distinguere, nell’Universale, intelletto e conoscenza, né, quindi, intelligibile e conoscibile: la vera conoscenza essendo immediata, l’intelletto è rigorosamente identico al suo oggetto; non è che nei modi condizionati della conoscenza, modi sempre indiretti ed inadeguati, che si può stabilire una distinzione, dal momento che la conoscenza relativa si attua non attraverso l’intelletto stesso, bensì attraverso una rifrazione di questo negli stati d’essere considerati, rifrazione che, come abbiamo visto, rappresenta la coscienza individuale; ma, direttamente o indirettamente, esiste pur sempre una partecipazione all’intelletto universale nella misura in cui vi è conoscenza effettiva, in una qualsiasi modalità, o anche al di fuori di ogni modalità particolare.
Essendo la conoscenza totale adeguata alla Possibilità universale, non vi è nulla che sia inconoscibile [Rigettiamo dunque in modo formale ed assoluto ogni «agnosticismo», a qualunque grado questo sia; si potrebbe d’altronde chiedere tanto ai «positivisti» quanto ai partigiani della famosa teoria dell’« Inconoscibile» di Herbert Spencer, che cosa li autorizza ad affermare che vi sono cose che non possono essere conosciute, e questa domanda rischierebbe assai di rimanere senza risposta, tanto più che alcuni di essi sembrano, di fatto, confondere puramente e semplicemente il «non conosciuto» (e cioè in definitiva ciò che è sconosciuto a loro stessi) con «l’inconoscibile» (v. Oriente e Occidente, 1° parte, cap. i, e La Crisi del Mondo moderno)] o, in altri termini, «non vi sono cose inintelligibili, vi sono solo cose attualmente incomprensibili» [Matgioi, La Voie Métaphysique, p. 86] e cioè inconcepibili, e non in se stesse ed in modo assoluto, ma solo per noi, in quanto siamo esseri condizionati, e cioè limitati, nella nostra manifestazione attuale, alle possibilità di uno stato determinato. Veniamo così a porre quello che potrebbe definirsi un principio di «universale intelligibilità», non come lo si intende di solito, ma in un senso puramente metafisico, quindi al di là del dominio logico in cui questo principio, come tutti quelli di ordine propriamente universale (i soliti che possano veramente essere chiamati principi), non troverà che un’applicazione particolare e contingente. Naturalmente tutto questo non comporta traccia alcuna di «razionalismo», tutt’altro, poiché la ragione, essenzialmente differente dall’intelletto (senza la cui garanzia non avrebbe d’altronde alcun valore), non è che una facoltà specificamente umana e individuale; si tratta dunque necessariamente, non già dell’«irrazionale» [Ciò che oltrepassa i limiti della ragione, in effetti, non è per ciò stesso contrario alla ragione, e non è dunque, nel senso più comune della parola, «irrazionale»], bensì del «sopra-razionale», ed in effetti riscontriamo in questo caso un carattere fondamentale, proprio di tutto ciò che è veramente d’ordine metafisico: il «sopra-razionale» non cessa per questo di essere di per sé intelligibile, anche se non è attualmente comprensibile per le facoltà limitate e relative dell’individualità umana [Ricordiamo a questo proposito che un «mistero» anche inteso nella sua concezione teologica, non è affatto qualcosa di inconoscibile o inintelligibile, bensì (secondo il senso etimologico della parola, e come abbiamo già detto) qualcosa di inesprimibile e dunque incomunicabile, il che è ben diverso].
Tutto ciò comporta ancora un’altra osservazione, di cui bisogna tener conto onde evitare ogni malinteso: come il termine «ragione», così pure il termine «coscienza» può essere talvolta universalizzato con una trasposizione puramente analogica, e noi stessi l’abbiamo fatto in altra sede per rendere il significato del termine sanscrito Chit [L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XIV]; ma tale trasposizione è possibile solo quando ci si limita all’Essere, come era d’altronde il caso considerando il ternario Sachchidananda. Bisogna tuttavia dimenticare che, anche con questa restrizione, la coscienza così trasposta non è certamente più intesa nel suo senso proprio, quale è stato da noi definito in precedenza, e che, in linea generale, le conserviamo: teniamo a ripetere che normalmente essa non è dunque altro che un modo speciale di conoscenza contingente e relativa, come è contingente e relativo lo stato di essere condizionato a cui essa appartiene essenzialmente; e se possiamo dire che essa è una «ragione d’essere» per tale stato, ciò avviene proprio perché essa partecipa, per rifrazione, alla natura di quell’intelletto universale trascendente che, infine, è la suprema «ragione d’essere» di ogni cosa, la vera «ragion sufficiente» metafisica che determina se stessa in ogni ordine di possibilità, e che nessuna delle sue determinazioni può in alcun modo alterare. Questa concezione della «ragion sufficiente», ben diversa dalle concezioni filosofiche o teologiche a cui si limita il pensiero occidentale, risolve anche immediatamente parecchie questioni dinanzi alle quali quest’ultimo ha dovuto riconoscere la sua impotenza, e cioè conciliando il punto di vista della necessità con quello della contingenza; in questo caso siamo infatti ben oltre l’opposizione esistente fra necessità e contingenza, intese nella loro normale accezione [Dobbiamo d’altronde precisare che la teologia, in questo ben superiore alla filosofia, riconosce almeno che questa opposizione può e deve essere superata, anche se la sua risoluzione non appare con l’evidenza che presenta quando la si considera dal punto di vista metafisico. Bisogna aggiungere che è stato soprattutto dal punto di vista teologico e a causa della concezione religiosa della «creazione», che la questione dei rapporti fra necessità e contingenza ha avuto fin dall’inizio l’importanza che ha in seguito conservato nel pensiero filosofico occidentale]; qualche riferimento complementare non sarà tuttavia inutile per far comprendere perché la questione non può essere posta in termini di pura metafisica.

XVII. NECESSITÀ E CONTINGENZA

Abbiamo già detto che ogni possibilità di manifestazione come tale deve manifestarsi, e cioè proprio in quanto è una possibilità di manifestazione; ciò significa che la manifestazione è necessariamente contenuta, come principio, nella natura stessa di certe possibilità. La manifestazione dunque, pur essendo di per sé puramente contingente, è nondimeno necessaria per quanto riguarda il suo principio, così com’è di per sé transitoria pur possedendo nella Possibilità universale quelle radici assolutamente permanenti che, d’altronde, ne costituiscono la realtà più profonda. Se così non fosse, la manifestazione avrebbe un esistenza del tutto illusoria, e potrebbe anzi essere considerata come rigorosamente inesistente poiché, essendo priva di principio, conserverebbero solo un carattere essenzialmente «privativo», come può essere quello di una negazione o di una limitazione considerata di per sé; esaminata sotto questo aspetto, la manifestazione non sarebbe dunque altro che l’insieme di tutte le condizioni limitative possibili. E tuttavia, poiché tali condizioni sono possibili, sono anche metafisicamente reali, e questa realtà, che è puramente negativa se esse vengono concepite come semplici limitazioni, diventa in qualche modo positiva quando vengano invece considerate in quanto possibilità. La manifestazione trae dunque ogni realtà dalla sua appartenenza all’ordine delle possibilità, e tale realtà non può essere in alcun modo considerata come indipendente da quest’ordine universale, che ne rappresenta infatti l’unica vera «ragion sufficiente». L’affermare che la manifestazione, per quanto riguarda il suo principio, è necessaria, non significa altro, in fondo, che riconoscerne la sua appartenenza alla Possibilità universale.
Non vi è dunque alcuna difficoltà a concepire la manifestazione come al tempo stesso necessaria e contingente, secondo i punti di vista, purché non si dimentichi una questione fondamentale, e cioè che il principio non può essere limitato da alcuna determinazione perché è essenzialmente indipendente, esattamente come la causa è indipendente dai suoi effetti; per cui la manifestazione è effettivamente necessaria in virtù del suo principio, non essendo invece affatto vero il contrario. L’«irreversibilità», o meglio l’«irreciprocità» della relazione che abbiamo considerato risolve quindi tutte le difficoltà che abitualmente intervengono su questo punto [È questa stessa «irreciprocità» che esclude anche ogni «panteismo» o «immanentismo», come d’altronde abbiamo già fatto osservare in altra sede (v. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XXIV)], e queste difficoltà, d’altronde, non esistono se non quando si trascura questo aspetto di «irreciprocità»; e se lo si trascura (ammesso che qualcuno sia mai riuscito ad intravvederlo), ciò si deve al fatto che apparteniamo attualmente al dominio della manifestazione e siamo naturalmente portati ad attribuirle un importanza che, da un punto di vista universale, essa non ha assolutamente. Per meglio aiutare a comprendere il nostro pensiero ci serviremo ancora di un simbolo spaziale, e diremo dunque che la manifestazione, nella sua integralità, è veramente nulla in rapporto all’Infinito, precisamente come avviene (con le riserve che l’imperfezione di tale confronto ci impone) per un punto situato nello spazio, il quale, in rapporto a quest’ultimo è uguale a zero [Si tratta naturalmente di un punto situato nello spazio, e non del punto principiale, di cui lo spazio stesso è da considerarsi come uno sviluppo o un’espansione. Sui rapporti fra punto ed estensione, v. Il Simbolismo della Croce, cap. XVI]; ciò significa che tale punto sia zero in senso assoluto (tanto più che esso necessariamente esiste per il fatto stesso che lo spazio esiste), significa bensì che esso è zero in rapporto all’estensione, ossia che è rigorosamente zero come estensione; e la manifestazione è, in rapporto al Tutto universale, esattamente ciò che è questo punto in rapporto allo spazio considerato in tutta l’indefinità della sua estensione, ma con questa differenza, che mentre lo spazio è qualcosa di limitato per natura, il Tutto universale è l’Infinito.
Esiste ancora un’altra difficoltà, che tuttavia risiede più nell’espressione che nella concezione del problema: tutto ciò che esiste nella manifestazione deve trovare la sua trasposizione in modo permanente nel non-manifestato; la manifestazione stessa acquista così quella permanenza che costituisce tutta la sua realtà principiale, ma non si tratta più della manifestazione in quanto tale, bensì dell’insieme delle possibilità di manifestazione che non si manifestano, pur implicando la manifestazione della loro stessa natura, ché, in caso contrario, sarebbero diverse da ciò che sono. La difficoltà di questa trasposizione, ovvero di questo passaggio dal manifestato al non-manifestato, e l’oscurità apparente che ne risulta, sono le stesse che si riscontrano quando si vogliano esprimere, nella misura in cui sono esprimibili, i rapporti fra il tempo, o più generalmente fra la durata in tutti i suoi aspetti (alludiamo a tutte le condizioni possibili d’esistenza successiva), e l’eternità; ed è in fondo la stessa questione, considerata sotto due aspetti ben poco differenti, dei quali il secondo è semplicemente più particolare del primo, poiché si riferisce ad una condizione particolare fra tutte quelle che il manifestato comporta. Tutto questo, lo ripetiamo, è perfettamente concepibile, purché si tenga conto di ciò che è inesprimibile, come d’altronde si deve ogni qual volta ci si occupi di metafisica; quanto ai mezzi di realizzazione di una concezione che sia effettiva e non solo teorica, e che si estenda alle inesprimibile, non possiamo evidentemente parlarne in questa sede, poiché le considerazioni di quest’ordine non rientrano nel quadro che ci siamo attualmente prefissi.
Ritornando alla contingenza, possiamo, in linea generale, darne la seguente definizione: è contingente tutto ciò che non ha in sé la sua ragion sufficiente; si può dunque dedurne che ogni cosa contingente è tuttavia necessaria, in quanto è resa necessaria dalla sua ragion sufficiente: infatti, per esistere, essa deve pur averne una, la quale però non risiede in essa, almeno fintantoché la si consideri come sottoposta alla condizione speciale in cui è dotata di questo carattere di contingenza, carattere che non avrebbe più se venisse considerata come principio, poiché allora si identificherebbe alla sua ragion sufficiente. È questo il caso della manifestazione, contingente in quanto tale, perché in quanto principio o ragion sufficiente risiede nel non-manifestato, che è sede di ciò che potremmo chiamare il «manifestabile», vale dire delle possibilità di manifestazione intese come possibilità pure (e, inutile dirlo, non in quanto comprendente il «non-manifestabile», o le possibilità di non-manifestazione). Principio e ragion sufficiente sono dunque in fondo la stessa cosa, ma è particolarmente importante considerare il principio sotto questo aspetto di ragion sufficiente per poter capire in senso metafisico la nozione di contingenza; bisogna però ancora precisare, ad evitare ogni confusione, che la ragion sufficiente è esclusivamente la ragion d’essere ultima di una cosa (ultima se si parte dalla considerazione di questa cosa per risalire al principio, ma, in realtà, prima nell’ordine del concatenamento, sia logico che ontologico, che va dal principio alle conseguenze), e non semplicemente la sua ragion d’essere immediata, poiché tutto ciò che esiste in un qualsivoglia modo, anche contingente, deve avere in sé una ragion d’essere immediata, intesa nel senso che abbiamo già precisato affermando che la coscienza rappresenta una ragion d’essere per certi stati dell’esistenza manifestata.
Conseguenza importante di quanto è stato detto, è che ogni essere ha in sé il suo destino, sia in modo relativo (come destino individuale) se si vuole solo considerare l’essere compreso in un certo stato condizionato, sia in modo assoluto, se si tratta dell’essere nella sua totalità, poiché «la parola «destino» designa la vera ragion d’essere delle cose» [Commentario tradizionale di Ceng-Ze sull’Yi-King (v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXII)]. L’essere condizionato o relativo, tuttavia, non può portare in sé che un destino parimenti relativo, esclusivamente afferente alle sue particolari condizioni di esistenza; se, considerando l’essere in questo modo, si intendesse parlare del suo destino ultimo o assoluto, si dovrebbe concludere che esso non è più in lui, poiché in realtà non sarebbe affatto il destino di quest’essere contingente, bensì quello dell’essere totale. Questa osservazione è sufficiente a mostrare l’inutilità di tutte le discussioni sul «determinismo» [Altrettanto si potrebbe dire per quasi tutte le discussioni relative alla finalità; è così, in particolare, che la distinzione fra «finalità interna» e «finalità esterna» può apparire valida solo quando si ammette la supposizione antimetafisica che un essere individuale è un essere completo, e costituisce un «sistema chiuso»; perché altrimenti ciò che «esterno» all’individuo può nondimeno essere «interno» all’essere vero, ammesso che la distinzione presupposta da questa parola gli sia ancora applicabile (Il Simbolismo della Croce, cap. XXIX); ed è facile rendersi conto che in fondo finalità e destino sono la stessa cosa]; ci troviamo ancora una volta di fronte ad una di quelle questioni, così numerose nella filosofia occidentale moderna, che esistono solo perché sono mal poste; vi sono d’altronde parecchie concezioni, tutte differenti, riguardanti sia il determinismo che la libertà, e la maggior parte di esse non ha nulla di metafisico; sarà interessante perciò precisare la vera nozione metafisica della libertà, e sarà appunto con quest’argomento che termineremo il presente studio.


XVIII. NOZIONE METAFISICA DELLA LIBERTÀ

Per provare metafisicamente la libertà non è affatto necessario preoccuparsi dei vari argomenti filosofici, ed è invero sufficiente stabilire che essa è una possibilità, dal momento che il possibile ed il reale sono metafisicamente identici. A questo scopo possiamo per intanto definire la libertà come assenza di costrizione: definizione negativa nella forma ma che, ancora una volta, è positiva nella sostanza, essendo la costrizione una limitazione, e cioè una vera e propria negazione. Ora, se si riguarda la Possibilità universale come ciò che è al di là dell’Essere, identificandola così al Non-Essere, non è possibile, come abbiamo già detto, parlare di unità dal momento che il Non-Essere è lo Zero metafisico, ma si può almeno, sempre impiegando la forma negativa, parlare di «non-dualità» (adwaita) [cfr. L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. XXII]. Dove non vi è dualità non può necessariamente esservi costrizione, e ciò basta a provare che la libertà è una possibilità, dal momento che essa è l’immediata risultante della «non-dualità», che è evidentemente esente da ogni contraddizione.
A questo punto si può ancora aggiungere che la libertà è non solo una possibilità, nel senso più universale, ma anche una possibilità d’essere o di manifestazione; ed è sufficiente, per passare dal Non-Essere all’Essere, passare dalla «non-dualità» all’unità: l’Essere è «uno» (l’Uno essendo lo Zero affermato), o piuttosto, è l’unità metafisica stessa, prima affermazione ma anche, proprio per questo, prima determinazione [v. ibid. cap. vi]. Ciò che è uno è manifestamente esente da ogni costrizione, e questo significa che l’assenza di costrizione, e cioè la libertà, si ritrova dunque nel dominio dell’Essere, in cui l’unità si presenta per così dire come una specificazione della «non-dualità» principiale del Non-Essere; in altri termini, la libertà appartiene anche all’Essere, ed è anzi una possibilità d’essere, o, secondo quanto abbiamo spiegato, una possibilità di manifestazione, poiché l’Essere è innanzitutto il principio della manifestazione. Non solo, ma dire che questa possibilità è essenzialmente inerente all’Essere come conseguenza immediata della sua unità, equivale a dire che essa si manifesterà, ad un qualsiasi grado, in tutto ciò che procede dall’Essere, e cioè in tutti gli esseri particolari, dal momento che questi appartengono all’ordine della manifestazione universale. Quando tuttavia ci si trova dinnanzi alla molteplicità, come nel caso in cui vengano prese in esame esistenze particolari, non si potrà più evidentemente parlare che di libertà relativa, e bisognerà considerare, a questo riguardo, sia la molteplicità degli esseri particolari, sia quella degli elementi costitutivi di ciascuno di essi. Per quanto riguarda la molteplicità degli esseri, ciascuno di essi, nel suo stato di manifestazione, è limitato dagli altri, e questa limitazione può tradursi in una restrizione alla libertà; l’affermare però che un essere non è «mai» libero, equivarrebbe a dire che esso non è «se stesso», che si identifica «agli altri», o che non ha in sé una ragion d’essere neppure immediata, ciò che in fondo equivale a dire che non è un vero essere [Si può ancora fare osservare che, dal momento che la molteplicità procede dall’unità, nella quale è implicata o contenuta principialmente, essa non può in alcun modo distruggere né l’unità, né ciò che è conseguenza dell’unità, com’è il caso della libertà]. D’altra parte, poiché sia negli esseri particolari che nell’Essere universale l’unità dell’Essere è il principio della libertà, un essere sarà libero nella misura in cui parteciperà di questa unità; in altri termini, sarà tanto più libero quanto maggiore sarà il suo grado di unità, o quanto più sarà «uno» [Ogni essere, per essere veramente tale, deve possedere una certa unità, il cui principio risiede in lui; in questo senso, Leibniz ha detto, molto giustamente: «Ciò che non è veramente «un» essere, non è neppure veramente un «essere»»; ma questa adattazione della forma scolastica «ens et unum convertuntur» perde in lui la sua portata metafisica, a causa dell’attribuzione dell’unità assoluta e completa alle «sostanze individuali»], cosa questa che, come abbiamo già detto, può avvenire per gli esseri individuali soltanto in modo relativo [D’altronde è proprio a causa di questa relatività che si può parlare di gradi di unità, e quindi anche di gradi di libertà, non essendovi gradi se non nel relativo, e non essendo ciò che è assoluto suscettibile di «più» o di «meno» («più» e «meno» devono essere presi in questo caso analogicamente, e non soltanto nella loro accezione quantitativa)]. È d’altronde importante osservare a questo proposito che non è precisamente la più o meno grande complessità della costituzione di un essere che lo fa più o meno libero, ma piuttosto il carattere di tale complessità in rapporto al suo grado di unificazione effettiva; e ciò risulta da quanto è stato esposto precedentemente circa i rapporti fra unità e molteplicità [Bisogna distinguere fra la complessità costituita da pura molteplicità, e quella che al contrario è un’espansione dell’unità (cfr. Asrar-Rabbaniya nell’esoterismo islamico: L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, cap. ix, ed Il Simbolismo della Croce, cap. IV); diremo allora che in rapporto alle possibilità dell’Essere, la prima si riferisce alla «sostanza», e la seconda all’«essenza». Si potrebbero anche considerare i rapporti fra un essere e gli altri (rapporti che per l’essere in questione, considerato nello stato in cui essi hanno luogo, entrano come elementi nella complessità della sua natura, facendo parte dei suoi attributi come modificazioni secondarie di sé stesso) sotto due aspetti apparentemente opposti, ma in realtà complementari, a seconda che in questi rapporti l’essere in questione assimila a sé gli altri o ne è assimilato, costituendo questa assimilazione una «comprensione» nel vero senso della parola. Il rapporto esistente fra due esseri è una modificazione sia dell’uno che dell’altro; ma si può dire che la causa determinante di questa modificazione risiede in quello dei due esseri che agisce sull’altro, o che l’assimila a sé, se il rapporto è inteso secondo il punto di vista precedente, che non è più quello dell’azione, ma quella della conoscenza che implica identificazione fra i due termini].
La libertà, è dunque una possibilità che, a gradi differenti, è attributo di tutti gli esseri, a qualunque stato essi appartengano, e non solo dell’uomo, e la libertà umana, la sola chiamata in causa in tutte le discussioni filosofiche, si presenta dunque come un caso particolare, come difatti è [Poco importa che alcuni preferiscono chiamare «spontaneità» ciò che noi chiamiamo libertà, al fine di poter riservare quest’ultimo nome alla libertà umana; l’impiego di questi due termini differenti ha il difetto di indurre facilmente a credere che la libertà umana sia di un altra natura, mentre non si tratta che di una differenza di gradi, o che costituisca una sorta di «caso privilegiato», cosa questa metafisicamente insostenibile]. Del resto, ciò che metafisicamente interessa veramente non è tanto la libertà relativa degli esseri manifestati, e neppure i domini particolare e limitati nei quali essa può esercitarsi, ma è piuttosto la libertà intesa in senso universale, che risiede propriamente nell’istante metafisico del passaggio dalla causa all’effetto, potendo il rapporto causale essere trasposto logicamente in modo tale da trovare applicazione in tutti gli ordini di possibilità. Poiché questo rapporto causale non è, e non può essere, un rapporto di successione, la sua attuazione va in questo caso considerata essenzialmente sotto l’aspetto extra-temporale, tanto più, poi, se si tiene conto che il punto di vista temporale proprio di un certo stato di esistenza manifestata, o più precisamente di certe modalità di questo stato, non è per nulla suscettibile di universalizzazione [La durata stessa, intesa nel senso più generale, come condizionante ogni esistenza in modo successivo, e cioè come comprendente ogni condizione che corrisponde analogicamente al tempo negli altri stati, non può essere universalizzata, poiché, nell’Universale, tutto deve essere considerato in simultaneità]. Conseguenza di tutto ciò è che quest’istante metafisico, che ci pare inafferrabile perché non esiste soluzione di continuità fra causa ed effetto, è in realtà illimitato, e va dunque, come d’altronde abbiamo spiegato fin dall’inizio, oltre l’Essere, ed è coestensivo della Possibilità totale stessa; esso rappresenta ciò che si potrebbe chiamare, in modo figurato, uno «stato di coscienza universale» [Rimandiamo il lettore a quanto abbiamo già detto circa le riserve che è necessario imporre quando si vuole universalizzare il senso del termine «coscienza» per trasposizione analogica. L’espressione impiegata in questo caso è in fondo quasi equivalente a quella di «aspetto dell’Infinito», che non va presa, d’altronde, in senso letterale] che partecipa della «permanente attualità» inerente alla «causa iniziale» stessa [Cfr. Matgioi, La Voie Métaphysique, pp. 73-74].
Nel Non-Essere, l’assenza di costrizione non può risiedere che nel «non-agire» (il wu-wei della tradizione estremo-orientale) [L’«Attività del Cielo» in se stessa (nell’indifferenziazione principiale del Non-Essere) è non-agente e non-manifestata (v. Il Simbolismo della Croce, cap. XXIII)]; nell’Essere, o più esattamente nella manifestazione, la libertà si attua nell’attività differenziata che, nello stato individuale umano, prende la forma dell’azione nel senso abituale della parola. D’altronde, nel dominio dell’azione, ed anche di tutta la manifestazione universale, la «libertà d’indifferenza» è impossibile, poiché essa è in realtà il modo di libertà proprio del non-manifestato (ed a rigore non è affatto un modo particolare) [E non lo diventa se non nella sua concezione filosofica ordinaria, che non solo è erronea, ma anche assurda, dal momento che suppone che qualcosa possa esistere senza avere alcuna ragion d’essere] in altre parole esse non è la libertà in quanto possibilità di essere, ne si può intendere come la libertà che appartiene all’Essere (o a Dio, concepito come l’essere nei suoi rapporti col mondo, inteso qui come l’insieme della manifestazione universale), e quindi negli esseri manifestati propri del suo dominio, e partecipi della sua natura e dei suoi attributi secondo le rispettive possibilità. La realizzazione delle possibilità di manifestazione, costituenti tutti gli esseri in tutti i loro stati manifestati, e con tutte le modificazioni, azioni e quant’altro appartiene a questi stati, questa realizzazione, diciamo, non può dunque riposare su una pura indifferenza (o su un decreto arbitrario della Volontà Divina, secondo la ben nota teoria cartesiano, che d’altronde pretende di applicare questa concezione dell’indifferenza sia a Dio che all’uomo) [Indichiamo la traduzione in termini teologici unicamente per facilitare il paragone con i punti di vista abituali del pensiero occidentale], ma è determinata dall’ordine della possibilità universale di manifestazione, che è poi l’Essere stesso, e possiamo dunque dire che l’Essere determina se stesso non solo in quanto Essere, prima fra tutte le determinazioni, ma anche in tutte le sue modalità, e cioè in tutte le possibilità particolari di manifestazione. È soltanto in queste ultime, considerate «distintivamente» o sotto l’aspetto della «separatività», che si può avere determinazione dovuta ad «altro che se stesso»; in altri termini, gli esseri particolari possono sia determinarsi (poiché ciascuno di essi possiede una certa unità, e quindi una certa libertà, in quanto partecipe dell’Essere), sia essere determinati da altri esseri (in ragione della molteplicità degli esseri particolari, non ricollegata all’unità in quanto essi vengono in questo caso considerati dal punto di vista degli stati di esistenza manifestata). L’Essere universale non può venire determinato, ma si determina da sé; quanto al Non-Essere, esso non può né essere determinato né determinarsi, essendo al di là di ogni determinazione, e non ammettendone alcuna.
Da quanto abbiamo detto, è chiaro che la libertà assoluta non può realizzarsi che attraverso la completa universalizazione: essa sarà «auto-determinazione» in quanto coestensiva all’Essere, e «indeterminazione» al di là dell’Essere. Mentre ad ogni essere è propria una certa libertà relativa in qualunque condizione si trovi, la libertà assoluta non può appartenere che all’essere liberato dalle condizioni di esistenza manifestata, individuale o anche sopra-individuale, e divenuto assolutamente «uno», al grado di Essere puro, o «senza dualità» se la sua realizzazione va ancora oltre l’Essere [v. L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, capp. XV e XVI]. In questo caso, e solo in questo caso, si può parlare dell’essere «che è legge a se stesso» [Su quest’espressione, che appartiene più propriamente all’esoterismo islamico, e sul suo equivalente swechchhachari nella dottrina indù, v. Il Simbolismo della Croce, cap. IX. Ricordiamo anche quanto è stato scritto sullo stato di Yogi o di jivan-mukta (L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, capp. XXIII e XXIV)], poiché quest’essere è perfettamente identico alla sua ragion sufficiente, che è la sua origine principiale, ed anche il suo destino finale.