Libera lo splendore prigioniero. Il tentativo è quello di attivare delle volontà, di far partire una scintilla che, raccolta da chi ci segue, crei una scarica permanente, un flusso. Verrà il momento in cui tutti gli sconvolgimenti cosmici si assesteranno e l’universo si aprirà per un attimo, mostrandoci quello che può fare l’uomo.

lunedì 29 marzo 2010

Punti di vista

Ricevo e pubblico

Porto un esempio.
Nella nostra società l'uomo comune lavora per la maggior parte della sua Vita e come "premio" nei restanti anni godrà della sua pensione.
Dalle mie ricerche e studi deduco che, un cammino spirituale costante è molto più difficile e pieno di ostacoli rispetto ad un lavoro ordinario; non nascondo che nei primi passi si può rischiare l'instabilità mentale e l'emarginazione sociale ma con l'esperienza si acquisiranno dei concetti e dei pensieri che prima ci apparivano utopistici ma che ora sono diventati più reali e tangibili della cartamoneta.
Ritornando all'esempio della pensione, se l'uomo pensasse all'evoluzione spirituale nella Vita Terrena, in seguito godrà di uno stato di grazia per l'ETERNITA' a mio modesto parere molto meglio di un contentino per la vecchiaia.
Gianluca Riccardi

mercoledì 24 marzo 2010

TUTTE LE FORME SPIRITUALI CONDUCONO ALL'UNITÀ. CAMBIANO LE PAROLE E I GERGHI, MA IL NUCLEO DI OGNI DOTTRINA È LO STESSO. GLI UOMINI DI POTERE ALZANO MURI, ELABORANO PRECETTI E FISSANO DOGMI, COSTRUISCONO COSÌ LE RELIGIONI, CHE ALLONTANANO I POPOLI E LI MINACCIANO. SOLTANTO LA SPIRITUALITÀ AVVICINA, PERCHÈ CONDUCE AL DIVINO PRESENTE DENTRO OGNI UOMO, SENZA CREARE IDOLI FUORI.

domenica 14 marzo 2010

DARDI VERSO IL CIELO di Cristina Campo

 
Anteo, per rimanere invincibile, doveva toccar terra col piede. L'uomo religioso deve, nell'agone che gli è proprio, staccarsene il più sovente possibile: proiettando la sua mente in Dio, scagliandola, come si dà il volo a una rondine, verso il Creatore. Questo dardo d'oro della mente, questo batter d'ali che si gettano perdutamente a prender dimora un istante nel cuore stesso della luce, sono noti ai cristiani; e quando siano vocali (ma non necessaria­mente) si chiamano operazioni giaculatorie, da jaculum, appunto: dardo o freccia scoccata.
Il Vescovo di Roma ha ricordato di recente che "l'uomo è un essere costituzionalmente ordinato a trascendere se stesso, un essere proiettato verso Dio". Questa naturale conformazione spiega come la giaculatoria sia stata in ogni tempo istintiva sulle labbra del popolo: il più delle volte inconscia, puro grido, non di rado colma di affetti delicati. "Cuore di Cristo, Vergine dolcissima, Madre del Cielo, fateci santi" sono tra le locuzioni ancora in uso nelle campagne italiane. E non è detto che il lancio di questi lievi e caldi boccioli non compensi, sulle bilance invisibili, terrificanti pesi di blasfemia. Il dolore del popolo rinnova, in una gamma infinita, l'eco - umile e difforme finché si vuole - della suprema giaculatoria divina: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
Nella storia cristiana la pratica assidua, metodica dell'orazione giaculatoria risale ai padri anacoreti della Tebaide. Nelle Vitae Patrum è perpetuato il ricordo dell'unica giaculatoria con la quale l'abate Pafnuzio condusse in tre anni la cortigiana Thais alla purificazione perfetta. Volta verso Oriente, ella doveva ripetere: "Tu che mi creasti, abbi pietà di me".
Ma vi è un nome al quale "si piega ogni ginocchio, in cielo, in terra e negli inferni". La giaculatoria dei Padri era soprattutto il nome di Cristo, reiterato all'infinito secondo il comandamento paolino "Pregate incessantemente" (1Ts 5,17), ora solo, ora in un breve contesto: "Signore Gesù, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore". La pratica risale a un grande mistico bizantino, Simeone il Nuovo Teologo, ma la ritroviamo, più o meno ac­centuata, in tutti i Padri d'Oriente (v. Philokalia on Prayer of the Heart, Faber & Faber, 1957, e in italiano la piccola Philocalia, LEF, 1963).
Come il sacro Nome venga dolcemente accordato al gioco del respiro e del battito cardiaco, finché per così dire non più l'uomo prega ma in lui si prega incessantemente, gioiosamente, così come in lui si pulsa e si respira, è narrato con incantevole realismo in un singolare romanzo composto in Russia nel XIX secolo, senza dubbio da un eminente conoscitore delle vie della contemplazione: La relazione (o Il racconto) di un pellegrino al suo confessore (LEF, a cura di don Divo Barsotti) : stupenda piccola opera costruita, come Le anime morte, in forma di itinerario attraverso un paese ed un popolo. Ma queste sono anime vive, incoercibilmente felici e soavemente possenti, che il magnete del Nome congrega intorno al pellegrino dovunque passi. Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo. L'iniziazione alla "via del Nome" è ancora diffusa nei monasteri del Monte Athos (v. Invocazione del Nome di Gesù, di Ignoto, LEF, 1961) e, a quanto sembra, in molti paesi dell'Est.
Cassiano consacra un intero capitolo delle sue Collazioni alla giaculatoria "Deus, in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina": versetto davidico che aprirà, in Occidente, ciascuna Ora canonica dell'Uffizio corale. Nelle Ore, anche certe coppie di versi e responsori brevissimi suonano quali giaculatorie di supplica: "Ostende nobis Domine / misericordiam tuam", o "Miserere / mei, Deus".
Ma l'amore vince il timore. Giaculatoria regale è la giaculatoria di pura dilezione, come quella che san Francesco ripeté per un'intera notte: "Mio Dio e mio tutto". Affettuose giaculatorie chiudono ciascun capitolo dei piccoli trattati di sant'Alfonso. Non diversamente le intendeva san Francesco di Sales, le cui lettere di direzione spirituale si insinuano come dita delicate sino alle corde più fini della vita dell'anima, squisitamente accordandole alla volontà divina. A santa Francesca di Chantal egli raccomanda di salutare con una giaculatoria ogni rintoccar d'ora. Ad una giovane donna vessata dal terrore della morte, di esclamare frequentemente: "Voi siete mio Padre, o Signore". Ma è nelle lettere a due dame, a cui gli affari di Corte impediscono l'orazione metodica, che egli formula con maggior bellezza e precisione il carattere dell'orazione giaculatoria: "... soprattutto desidero che in ogni occasione, durante la giornata, voi ritiriate il vostro cuore in Dio, dicendogli qualche parola di fedeltà e d'amore". "... [supplite] alla mancanza degli altri esercizi con frequenti e ferventi orazioni giaculatorie o proiezioni (élancements) dello spirito in Dio" (Lettres, Garnier, vol. I).
Questo doppio e simultaneo movimento dello spirito, che si ritira in Dio cercandolo nella segreta stanza interiore, e trova in quel centro l'infinito nel quale lanciarsi, lo ritroviamo nella pratica religiosa dell'Islam. Secondo Frithjof Schuon (Comprendre l'Islam, Gallimard, 1961), "la preghiera canonica è diretta verso la Mecca, mentre la menzione di Dio - Non c'è Dio se non Dio - è diretta verso il cuore". Questa giaculatoria di lode, reiterata alla minima occasione, forma nell'Islam il tessuto stesso della vita.
La consuetudine di queste sacre formule riveste l'uomo di una speciale impassibilità, e non è raro incontrare ancor oggi delicati asceti di cui non si spiegherebbe la resistenza all'urto del mondo se non li sapessimo ricoperti da un'invisibile armatura di giaculatorie. Come sempre il santo è il miglior banchiere, secondo la parola di uno scrittore contemporaneo, e lo stato di orazione perenne, oltre ad assicurare un apporto continuo di energie spirituali, lo stato di gioia e la santa imperturbabilità, opera tutto un seguito di meraviglie minori, alle quali difficilmente si crederà senza esperienza. La recitazione del Nome e la giaculatoria in generale, isolando lo spirito in un cerchio al quale soltanto forze superiori hanno accesso, è una possente difesa psicologica ben nota agli uomini di preghiera. Più di un antico mistico sperimentò come questa fulminea intimità con Dio arrivasse a produrre in qualche maligno interlocutore la improvvisa balbuzie, inspiegabili capogiri o altri sintomi di confusione mentale.
Anche l'inscrutabile vincitore è più spesso di quanto non si creda, e al contrario di quanto usa credere, vir orationis. Uno studioso riferiva un caso: quello del potentissimo finanziere uso alla contemplazione che assistendo a conferenze d'affari, veri convegni di lupi pronti a sbranarsi, se ne isolava di tanto in tanto elevando la mente in breve orazione. "E con sorpresa, ogni volta, li vedeva placarsi, riconciliarsi uno dopo l'altro". Riviste hanno riferito del magnate giapponese dell'automobile che trascorre un intero giorno della settimana in meditazione religiosa nei templi di Kyoto.
Nell'ultimo libro di Jacques Maritain (Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, 1966), di un'importanza così unica per la storia del cattolicesimo contemporaneo e così affascinante nella titanica ironia delle sue condanne, è suggerita, ancora una volta, la pratica della giaculatoria. "Si può fare orazione nel treno, nella metropolitana, nella sala d'aspetto del dentista. Si può ricorrere con frequenza a quelle brevi preghiere lanciate come un grido che gli antichi raccomandavano tanto".
È certo che se l'uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l'assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo.
 
da "Il Giornale d'Italia", 10-11 gennaio 1967, p. 3, ripubblicato in Cristina Campo, Sotto falso nome², a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, pp. 136-140

DELL'INCENSO di Cristina Campo

 
L'incenso, gomma odorifera in cristalli proveniente dall'Arabia, spesso mischiato a mirra, limiamo, cassia od altri aromi, fu usato nelle cerimonie liturgiche cristiane sin dal secolo IV.
Tra i molteplici significati dell'offerta d'incenso il più antico è forse il simbolo scritturale della preghiera che, a somiglianza della colonna profumata dell'incenso, si leva dalla terra verso il cielo al cospetto di Dio. Questo sacrificio di adorazione è palese nella chiesa bizantina, nelle funzioni dette dei Presantificati, nelle quali, durante il canto del Salmo 140 ("Salga a te la mia preghiera come incenso / l'elevazione delle mani come sacrificio vespertino"), il turibolo fumante viene deposto e lasciato sull'altare, mentre il sacerdote leva alte le mani.
L'offerta d'incenso all'imperatore, questo atto d'idolatria che costò al cristianesimo tanti martiri, fu presto tradotto anch'esso nei termini cristiani di omaggio all'Onnipotente. Ha questa origine l'incensazione liturgica dell'altare, del libro dei Vangeli, delle Oblate all'Offertorio e, ogni qualvolta sia esposto, del Santissimo Sacramento. I bizantini incensano persino il velo del calice prima che questo ne venga ricoperto e tutti i paramenti del vescovo, via via che egli li indossa. Il tempio bizantino viene del resto incensato completamente, icona per icona, all'inizio e nel corso di molte cerimonie. Le persone dei celebranti e degli assistenti sono anch'esse incensate in entrambe le Chiese. Ai Vespri conventuali latini si incensa l'altare della Vergine al canto del Magnificat. Nelle antiche abbazie benedettine l'incensazione si ripeteva tre volte, a ogni Notturno dell'ora canonica di Mattutino.
L'interpretazione mistica tradizionale dà all'offerta dell'incenso ulteriori significati. Esso si brucia:
1) per rendere omaggio a Dio col distruggere una creatura in suo onore;
2) per imitare in terra ciò che gli Angeli fanno in cielo, dove san Giovanni li vide offrire a Dio molti incensi bruciati in turiboli d'oro;
3) per profumare lo spazio sacro in odore di soavità e allontanare ogni ricordo del mondo profano prima che vi discenda Iddio;
4) per insegnare ai fedeli a bruciare e consumare anch'essi la loro vita per la gloria di Dio e diffondere ovunque il buon odore del Cristo.
Se la Chiesa incensa, oltre al tempio e alle cose sacre, anche i vivi ed i morti, essa fa questo:
1) per onorare quei corpi che col Battesimo divennero membra del Cristo e templi dello Spirito Santo;
2) per rivolgere ai vivi, nel modello visibile, l'invito a far ascendere la loro mente a Dio;
3) per mostrare che, come i fedeli morti hanno già fatto olocausto della loro vita al Signore, così i viventi debbono farne olocausto ogni giorno nel servizio di Dio.
È noto infine che la presenza degli spiriti del male è segnalata o simboleggiata da sgradevole odore. L'incenso, fragrante e benedetto dal celebrante col segno della Croce, si oppone a questa presenza, creando un cerchio di benedizione e operando nel regno dell'olfatto quello stesso esorcismo che la campana opera nel regno dell'udito, l'acqua benedetta in quello del tatto. Tale potere esoreistico è dimostrato dalla triplice incensazione circolare della salma nella cerimonia dell'assoluzione e in quella della sepoltura, e dichiarato esplicitamente da papa Innocenzo III in De sacrificio missae: "Fumus incensi valere creditur ad effugando daemones".
 
da: Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, II ed., Milano, Adelphi, 1998, pp. 209-211

OMAGGIO A CRISTINA CAMPO


"Oggi siamo entrati nella costellazione del cane. Roma respira greve
ed enorme, nella caligine ardente. Supremamente bella, a volte, nelle
sue tremende basiliche vuote, nelle sue piazze di sangue coagulato
che pare liquefarsi, fumando...La notte, il solito odore di
Basso Impero in putrefazione, ma anche profondi, puri mutamenti 
nei quali la città pare chiusa in uno smeraldo. Io non faccio che
andare in giro per questo immenso labirinto di misteri
concentrici..."
(Cristina Campo scrive il 21 luglio 1964).

SE SOLO FOSSI NATO

Se gli alberi fossero alti e l'erba bassa
come in qualche strano racconto
se qui e lì il mare fosse azzurro
oltre l'abisso che ci divide
se una palla di fuoco pendesse fissa nel cielo
per riscaldarmi per tutto un solo giorno
se soffice erba verde crescesse su grandi colline
io so quello che farei.
Nell'oscurità io giaccio
sognando che lì mi attendano grandi occhi freddi e gentili
e strade tortuose e porte silenziose
e dietro uomini viventi
meglio vivere un'ora
per combattere ed anche per soffrire
che tutti i secoli per cui ho governato gli imperi della notte
se solo mi dessero il permesso
dentro quel mondo di ergermi in piedi
io sarei buono per tutto il giorno
che avessi da passare in quella terra favolosa
da me non sentirebbero una parola
di egoismo o di vergogna
se solo potessi trovare un varco
se solo fossi nato.


Gilbert Keith Chesterton

martedì 9 marzo 2010


Se la vita è un segmento dell’essere, la Grande Vita sta ai bordi del segmento, prima e dopo, come un infinito. Come si varcano i punti del limite? Col sogno, la visione… la conoscenza si dilata toccando assoluti che la convenzione terrena ignora.

martedì 2 marzo 2010

FELICITÀ VIBRANTE

Lasciate dietro di voi i miraggi. Siete qui per la sola cosa veramente importante: scendere in fondo a voi stessi e trovarvi il punto di contatto fra Dio e voi. Ma questo può esser fatto solo nel silenzio e nella meditazione...
La vita di un uomo che non ha abbastanza pane per nutrire la sua famiglia è meno dolorosa di quella di un uomo che non sa cosa sia la fede. La vera povertà, la vera sofferenza è la mancanza di fede. Senza fede, l'uomo vive nella solitudine, nel vuoto e nell'oscurità. Questo mi addolora più di tutto: constatare nell'uomo moderno tale vuoto.
Posso parlare solo per me, ma mi sento in Dio come il gabbiano nell'aria, come il bambino fra le braccia di sua madre.
Da ragazzino, avevo spesso l'impressione di essere nelle mani di Dio come il vaso in quelle del vasaio. Poi le prime difficoltà, la scuola, i compagni, i primi dolori, i rimpianti; e poi ancora le malattie che si abbattevano violente su parenti, conoscenti e così la morte, misteriosa come la vita, incomprensibile nella sua infallibilità. Il male del mondo, il male nel mondo, anch'esso incomprensibile e Dio che mi diventava ignoto, cieco e sordo di fronte alla sofferenza umana. A nulla servivano i sermoncini dei preti, il catechismo a memoria - correva l'anno 1964 - quando poi lassù tutto taceva. Tuttavia, una notte sentii nel silenzio della mia piccola e desolata anima, il passaggio di Dio. Da quel giorno scese dall'alto su di me la gioia, 'ananda' come dicono gli indiani. Non furono rose e fiori, anzi, quella portentosa energia, luminosa, spettacolare, bellissima, era intermittente. Quando mi accadevano brutte cose l'invocavo, ma niente arrivava da lassù. Era strano, quando più ne avevo bisogno non si mostrava. E poi, improvvisamente, nei momenti ordinari, normalissimi, eccola, formidabile, a cascata, un brivido continuato, un'espansione infinita nel petto, qualcosa di meraviglioso si estendeva all'altezza del cuore e mi sentivo altissimo, tutto intorno a me risplendeva in una felicità luccicante.
È l'esperienza di Dio.
Egli agisce dentro di noi attraverso i piccoli e grandi avvenimenti e noi dobbiamo metterci in ascolto. Non si deve dare il primo posto al rito, alla morale come norma, all'enumerazione dei peccati, ma al dono di sé, al dono totale. Darsi a Dio e agli uomini, vuotarsi di se stessi per rendersi più trasparenti, più disponibile. Aprirsi. Bisogna rimanere sempre vigilanti, poiché il sacro dal quale Cristo è venuto a trasfigurare ha sempre la tendenza a ricostituirsi nelle Chiese, ad alzare nuove barriere, quadri, leggi. Trasfigurare vuol dire trovare il vero volto di Dio e dell'uomo nella loro profondità. Al limite, vuol dire liberarsi di un dio magico che ha bisogno di far paura.
Stare all'ascolto, lasciare da parte le categorie intellettuali. Meditare, fermarsi per sentire la presenza e, talvolta, lo splendore di Dio.
Tutti i mistici lo sanno, da oriente a occidente: quando si dà tutto a Dio, Egli lo rende centuplicato. Noi siamo il filo e Dio la corrente. Tutto il nostro potere consiste nel lasciar passare la corrente.