Libera lo splendore prigioniero. Il tentativo è quello di attivare delle volontà, di far partire una scintilla che, raccolta da chi ci segue, crei una scarica permanente, un flusso. Verrà il momento in cui tutti gli sconvolgimenti cosmici si assesteranno e l’universo si aprirà per un attimo, mostrandoci quello che può fare l’uomo.

martedì 22 dicembre 2009

Pensieri fuggiti


Più invecchi e più i tuoi tempi rallentano. Sai, quando è giovane, l’universo si espande fino a coprire milioni di chilometri in un lampo secondo, quando è maturo, diventa fisso, immobile, uniforme e pulsa al ritmo di profonde vene emozionali, e poi quando invecchia implode su se stesso. Per me è la stessa cosa. Sono come una vecchia colonna romana che aspetta di finire in un museo o di disintegrarsi.

venerdì 18 dicembre 2009

LE COSE CHE CONTANO


Un professore era nella sua classe di filosofia e aveva davanti alcuni oggetti.
Quando la classe incominciò a zittirsi, prese un grande barattolo vuoto di vetro e poco a poco lo riempì di palline da golf.
Chiese poi agli studenti se il barattolo fosse pieno e costoro risposero che lo era.
Il professore allora prese della ghiaia e la rovesciò nel barattolo. Lo scosse leggermente e i sassolini si posizionarono negli spazi vuoti, tra le palline da golf.
Chiese di nuovo agli studenti se il barattolo fosse pieno e questi concordarono che lo era.
Il professore prese allora una scatola di sabbia e la rovesciò lentamente nel barattolo; ovviamente la sabbia si sparse ovunque all'interno.
Chiese ancora una volta se il barattolo fosse pieno e gli studenti risposero con un unanime 'sì'.
Il professore estrasse quindi due bicchieri di vino da sotto la cattedra, li versò nel barattolo, e così si riempirono gli ultimi spazi disponibili.
Gli studenti risero.
-Ora - disse il professore - voglio che consideriate questo barattolo come la vostra Vita.
Le palle da golf sono le cose importanti: la vostra famiglia, i vostri bambini, la vostra salute, i vostri amici e le vostre Passioni; le cose per cui, se anche tutto il resto andasse perduto e rimanessero 'solo' queste, la vostra vita continuerebbe ad essere piena. 
I sassolini di ghiaia sono le altre cose che hanno importanza, come il vostro lavoro, la casa, la macchina... 
La sabbia è tutto il resto: le piccole cose. 
Se voi mettete nel barattolo la sabbia per prima, non ci sarà spazio per la ghiaia e nemmeno per le palle da golf. 
Lo stesso vale per la vita: se spendete tutto il vostro tempo e le vostre energie dietro le piccole cose, non avrete più spazio per le cose che sono importanti per voi. Prestate attenzione alle cose che sono indispensabili per la vostra felicità: giocate con i vostri bambini, godetevi la famiglia ed i genitori fin che ci sono; portate il vostro compagno/a fuori a cena... E non solo nelle occasioni importanti! Dedicatevi a ciò che amate e alle passioni, tanto ci sarà sempre tempo per pulire la casa o fissare gli appuntamenti. 
Dunque prendetevi cura per prima cosa delle palle da golf, le cose che contano davvero. Fissate le priorità... Il resto è solo Sabbia-. 
Uno degli studenti alzò la mano e chiese cosa rappresentasse il vino. 
Il professore sorrise: -Sono felice che tu l'abbia chiesto. Il vino serve solo a mostrare che non importa quanto piena possa sembrare la vostra vita: ci sarà sempre spazio per un paio di bicchieri di vino con un amico.

giovedì 17 dicembre 2009

TRACCE DI ASSOLUTO


Siamo sin troppo condizionati da modelli di riferimento religiosi, secondo i quali la via verso l'Assoluto non può prescindere dall'appartenenza ad una chiesa. Riti, simboli, liturgie, tradizioni, pratiche, sono l'armamentario necessario per poter entrare alla casa del Padre. Le opere, poi, diventano la patente miracolosa per dimostrare quanto siamo buoni, caritatevoli verso il prossimo. Bene, sembrerebbe risolto così ogni problema. Sembrerebbe. Già, perché amici del blog, chi tra di voi proviene dai sentieri su indicati, sa benissimo che la quiete, la costruzione dell'uomo interiore, la conoscenza di chi siamo, sono ben lungi dall'essere conquistati solo appartenendo ad una confessione. Non basta nemmeno un ritiro spirituale a pane e acqua, sulle colline umbre a respirar misticismo, per cambiarci di una virgola. Il cambiamento, questa è la parola magica ma anche la più abusata. Osho ci dice di liberarci di tutti i tabù religiosi, culturali e vivere a tutto gas, amando senza restrizioni, utilizzando le tecniche più svariate per meditare, vivere e danzare. Jiddu Krishnamurti ci dice che la verità è un mare senza sponde, oltre il conosciuto, e bisogna liberarci da tradizioni, convenzioni, soprattutto non attaccandoci ai contenuti della mente ci si libera dalle apparenze. Insomma, le tracce sono diverse, almeno quelle che non fanno riferimento ad una forma religiosa tradizionale. Occorre però verificare quanti si son liberati seguendo le indicazioni e le esperienze di guru o non-guru. A voi rispondere a tale quesito.

Posso solo dirvi in base al mio vissuto, che si può essere liberi nei nostri esatti confini e semplici sciogliendo la complessità. Si è re, obbedendo all'ultimo suddito. Si è eterni, morendo ogni attimo.

mercoledì 9 dicembre 2009

EGOCRAZIA


Noi concepiamo il mondo, e noi stessi in esso, come un qualcosa di estraneo composto da elementi in costante antitesi tra loro. Fino a quando vige tale visione veniamo dilaniati da ogni genere di pulsione poiché tentiamo costantemente di dominare, possedere, intrappolare una realtà che viviamo come altera: l'universo ci appare quale sfondo ove noi ci “agitiamo”, individuandoci mediante un processo basantesi su un principio di contrapposizione. Il Vedanda insegna che tale stortura nasce da una delle funzioni della mente empirica - manas -, la quale non essendo in grado di conoscere ciò che veramente è, ma solo ciò che essa si rappresenta le cose siano, “precipita” lo spirito individuato (jiva) in un mondo falso ed illusorio. (Il buddhismo, che nella sussistenza di un ente individuale non crede, ti dirà medesime cose omettendo ovviamente la possibilità che vi sia un'entità a monte del processo)
La mente, dicevo, origina perciò l'idea che esista un ego percipiente (che non è l'ente, lo spirito individuale, bensì una personalità illusoria), e che sia questi a determinare, a dare e conoscere la realtà. Ma la “realtà” dell'ego non corrisponde all'autentica Realtà, ne è solo uno sbiadito e fuorviante riflesso. Questo “ego”, sui cui meccanismi non mi soffermo per ovvie ragioni di spazio e la cui trattazione  richiederebbe fiumi di parole, impedisce - ci impedisce...- di “percepire” la reale natura dell'esistente la quale può essere conosciuta solo tramite “identità” e non per “contrapposizione”. Per com-prensione e non per rappresentazione. Perciò, l'unica possibilità per emanciparsi e conoscere ciò che realmente è, consiste nel disciogliere – sino ad una totale eliminazione – l'ego. Solo allora, e mano a mano che questi inizierà a mollare la sua presa, noi potremo finalmente esercitare un'altra funzione della mente (in questo caso non più considerata nel suo aspetto “manasico”/empirico), ben più elevata, che permetterà una conoscenza diretta ed immediata, per intuizione e non più – come prima – per deduzione. Essa è detta Buddhi, Intelletto puro, e dà un cuore puro inteso quale consapevolezza d'essere parti integrali di una realtà che è unitaria, e come capacità d'accoglierla in sé stessi.

giovedì 3 dicembre 2009

ROBERTO ASSAGIOLI, L'ENTRONAUTA

In un linguaggio consapevolmente divulgativo, Assagioli esprime, all’interno di una ricerca che sviluppa in modo coerente nell’arco della sua vita, concetti che provengono da una profonda riflessione psicologica, filosofica e spirituale sull’uomo.
L’interesse per la psiche e le potenzialità dell’uomo lo coinvolge fin dagli anni giovanili.
Egli riconosce alla psicanalisi il merito di avere scoperto e fatto oggetto di studio l’inconscio psichico, aggiungendo ad una psicologia “superficiale” perché interessata solo ai fatti psicologici che si danno nella coscienza di veglia, la psicologia del “profondo”. Questa dimostra che molte nostre scelte ed azioni sono dettate da influssi di cui non siamo spesso consapevoli, e l’esistenza di potenti forze oscure (particolarmente studiate da Jung), che sorgono dall’inconscio collettivo ancestrale ed attuale. Altro grande merito della psicanalisi, afferma Assagioli, è in campo medico, quando studia le azioni e reazioni che avvengono tra corpo e psiche e dimostra che ogni malattia, non solo nervosa, contiene una componente psicologica. Ma il limite della psicanalisi, sia freudiana, adleriana che junghiana, Assagioli lo trova nel suo occuparsi prevalentemente degli aspetti inferiori della psiche, trascurando gli aspetti superiori dell’animo umano. Egli addebita le cause di tale disinteresse al materialismo radicato in molte Università e nell'identificazione, operata dalla psicologia classica, del metodo scientifico con il metodo delle scienze naturali. Se gli psicologi dimostrano interesse alla sessualità in quanto oggetto di studio scientifico, non studiano l’amore né l’intuizione perché vaghi ed inafferrabili, nel senso che risultano non quantificabili. Ma metodo scientifico, afferma Assagioli, significa conformarsi ai concetti stabiliti da colui che egli ritiene il suo fondatore, Francesco Bacone, eliminando i diversi “idola”, le illusioni, confusioni, elementi passionali ed emotivi. “[1].
La psicologia, inoltre, non riconosce l’importanza della funzione psichica fondamentale per la psicosintesi, la volontà, così come la psicanalisi, inquadrata anch’essa in una concezione rigidamente deterministica. Neppure Jung, dice Assagioli, ne parla. Nella terapia, Assagioli consiglia la psicoanalisi all’inizio di un processo di psicosintesi, quale necessaria presa di coscienza dei nostri problemi e difficoltà, in modo da scaricare le tensioni conflittuali inconsce ed evitare la loro proiezione nella tecnica attiva. Ma non ritiene opportuno soffermarsi a lungo in quello “scavo del profondo”. Egli intende rafforzare la parte sana che vi è in noi, in modo che questa tolga forze alla parte “malata”. La psicosintesi non cura la parte malata, ma intende sviluppare la parte
sana, e questo mediante tecniche attive. “La psicosintesi appunto si propone di integrare lo studio della parte cosciente della personalità e dell’inconscio inferiore in medio con l’indagine del supercosciente, delle energie superiori latenti in ognuno, e con l’uso dei metodi per la loro attivazione e la loro integrazione nella personalità umana.”[2].
Assagioli cerca di realizzare la sintesi dell’uomo nei suoi aspetti: biologico, psichico e spirituale, avvalendosi di qualsiasi elemento costruttivo di scuola o movimento culturale o psicologico possa contribuire a ciò, integrando la psicologia americana, europea ed orientale, coordinando la psicologia con la scienza, la filosofia, la religione, l’arte.
La psicosintesi si sviluppa parallelamente all’evoluzione della psicologia umanistica, detta anche “Terza forza” della psicologia, nella quale trovano espressione ed ascolto le istanze superiori, spirituali[3], la crisi esistenziale del dare un significato alla vita, crisi che spesso precede un risveglio spirituale. Aspetti umanistici Assagioli li rileva già negli studi di W.James, nelle concezioni di McDougall, Jung ed Adler. Tra i suoi maggiori rappresentanti egli cita V. Frankl, E. Fromm, Rollo May, Charlotte Buhler, ma soprattutto Abraham Maslow[4] al quale riconosce il merito di aver promosso la psicologia “dell’uomo sano”, lo studio delle “esperienze delle vette”, ponendo le basi della psicologia transpersonale, o “quarta forza della psicologia”.
Un ulteriore progresso Assagioli lo trova nella psicologia psicoenergetica, da lui definita “Quinta forza” della psicologia. Completamente differente dalle precedenti, essa conserva una base scientifica perché deriva dalla scoperta della fisica moderna in base alla quale la materia risulta essere uno speciale stato dell’energia. Essa studia i rapporti tra la materia, l’energia e la psiche, ed ha per oggetto di indagine tutte le forze esistenti nell’universo ed i rapporti tra le stesse. Assagioli
sostiene l’importanza del conoscere le fasi del processo di soluzione dei problemi scientifici poiché esse rispecchiano i processi di psicosintesi: “anche in essi si tratta di integrare elementi e gruppi di elementi sparsi, o disordinati, in conflitto fra loro, in “configurazioni” ordinate e armoniche sempre più ampie, fino alla propria psicosintesi dell’intera personalità. E’ quindi un vero e proprio processo di autocreazione.”[5].
A questo proposito egli cita il “modello” creativo di J. Vargiu[6], ingegnere psicologo. Tra gli sperimentatori ricorda Elmer ed Alice Green, i quali hanno sviluppato un sistema di autoregolamentazione psicosomatica chiamato “Autogenic Feedback Training”, e sottolinea l’importanza, per il loro impiego nella medicina, educazione e psicosintesi, delle numerose ricerche,
condotte soprattutto in America e Giappone, finalizzate a studiare e dimostrare l’azione della psiche sulla materia.
I campi di interesse ed applicazione della psicosintesi sono quindi vastissimi: se essa può rientrare nell’ambito della psicologia umanistica è anche vero, a mio parere, che non sia strettamente definibile nella stessa né in altra. Attinge, infatti, a qualsiasi disciplina, arte o scienza, senza pregiudizio alcuno, dalla quale possa derivare un contributo all’autorealizzazione dell’individuo
integrato ed all’Umanità intera. Essa opera in particolare: in campo terapeutico, dove auspica che ogni medico abbia cognizioni di psicoterapia e sappia creare un rapporto più umano con il paziente; nell’integrazione personale e realizzazione delle proprie potenzialità; nell’educazione, non solo rivolta ai giovani ma anche degli adulti, insegnanti ed educatori; nei rapporti interpersonali e
nel sociale, per la trasformazione e sviluppo della società. In quest’ultimo campo, Assagioli include la psicosintesi delle nazioni come necessità urgente, poiché egli è consapevole che la pace mondiale è fortemente minacciata dalla loro forte tendenza all’autoaffermazione ed aggressività. Queste forze vanno trasformate e sublimate nel riconoscimento che ogni nazione può contribuire, nel suo specifico, al patrimonio umano comune. Richiamandosi a Giuseppe Mazzini, Assagioli afferma
che ogni nazione ha una missione da compiere ispiratale dall’Anima Nazionale: “la missione, non è quella che coscientemente al livello ordinario, ’personale’, un popolo crede, o non crede, di avere ma è quella che la sua Anima, il suo Sé spirituale, conosce e cerca di fargli attuare. Si può chiamare il proposito o il volere del Sé spirituale, dell’anima dell’entità nazionale.”[7]. La tecnica psicosintetica consigliata è quella del “modello ideale”, cioè il proiettare ed interiorizzare l’immagine che la nazione può divenire quando realizza le sue migliori possibilità. Esponendo ulteriormente il suo pensiero, Assagioli si sofferma sull’importanza della psicosintesi dell’Umanità, nel superamento delle barriere create dal razzismo, dallo sfruttamento economico e dall’intolleranza religiosa e culturale. Tutte queste integrazioni sono la preparazione e, contemporaneamente la conseguenza, al realizzarsi del grande progetto di Assagioli: l’unificazione e sintesi spirituale dell’Umanità: “Il Sé transpersonale di ognuno è in intima unione con il Sé transpersonale di tutti gli individui, per inconsapevoli che essi ne possano essere. Tutti i Sé transpersonali possono essere considerati dei ‘punti’ all’interno del Sé universale.”[8].
Concludiamo con l’invito espresso da Assagioli, dal quale traspare sia la consapevolezza dei pericoli che ci minacciano sia la grande fiducia che egli ripone, malgrado la Storia, nelle possibilità di migliorare e migliorarsi dell’Uomo: “Il primo e il più urgente è quello di salvaguardare l’umanità dai pericoli che essa stessa si è creata con la sua cecità e follia. Il secondo è quello di promuovere la venuta di una civiltà nuova e migliore nella quale l’individuo possa, in libertà e per il bene di tutti, dare espressione e creare le più meravigliose potenzialità innate in ogni essere umano.” [9].

[1] R. ASSAGIOLI, Psicoanalisi e Psicosintesi, dispensa della I lezione 1963, disponibile presso l’Istituto di Psicosintesi di Firenze, p. 6.
[2] R. ASSAGIOLI, ibid.
[3] Assagioli chiarisce che queste istanze riguardano la realtà trascendente e possono essere o non essere di natura religiosa .
La psicosintesi non presenta, infatti, né una nuova religione né una nuova filosofia, ed egli ne dichiara la ‘neutralità’.
[4] R. ASSAGIOLI, umana, dispensa della lezione I –1971, disponibile presso l’Istituto di Psicosintesi, p. 4.
[5] R. ASSAGIOLI, Le nuove dimensioni della psicologia, cit., p. 12.
[6] Assagioli non espone la teoria di J. Vargiu, ma ne elenca solo le fasi: preparazione, frustrazione, incubazione, illuminazione ed elaborazione, aggiungendo che le stesse sono state confermate dalle descrizioni date da Einstein, dal matematico H. Poincarrè e dal chimico Kekulè. ivi, p. 11
[7] R. ASSAGIOLI,
[8] R. ASSAGIOLI,
[9] Cfr. A.a.V.v., a cura di M. Rosselli, I nuovi paradigmi della psicologia, cit., p. 323.

venerdì 27 novembre 2009

NAVIGANDO NELL'IGNOTO: Un'Intervista con Carlos Castaneda



per la rivista Uno Mismo, Cile ed Argentina, Febbraio 1997
di Daniel Trujillo Rivas *

Domanda: Signor Castaneda, per anni lei è rimasto in assoluto anonimato. Che cosa la ha spinto a cambiare questa condizione e a parlare pubblicamente degli insegnamenti che lei e le sue tre compagne avete ricevuto dal nagual Juan Matus?

Risposta: Ciò che ci obbliga a diffondere le idee di don Juan Matus è la necessità di chiarire cosa ci insegnò. Per noi questo è un compito che non può essere più rimandato. Le altre tre sue allieve ed io abbiamo raggiunto la conclusione unanime che il mondo in cui don Juan Matus ci introdusse è nelle possibilità percettive di tutti gli esseri umani. Abbiamo discusso tra noi su quale fosse la strada corretta da prendere. Rimanere nell'anonimato come ci aveva proposto don Juan? Non era un'opzione accettabile. L'altra strada possibile era di divulgare le idee di don Juan: una scelta molto più pericolosa e impegnativa, ma l'unica che, noi riteniamo, abbia la dignità con cui don Juan ha permeato tutto il suo insegnamento.

D: Considerando ciò che lei ha detto circa l'imprevedibilità delle azioni di un guerriero, che noi abbiamo corroborato per tre decadi, possiamo aspettarci che questa fase pubblica duri per un pò? Fino a quando?

R: Non c'è modo per noi di stabilire un criterio temporale. Noi viviamo secondo le premesse proposte da don Juan e non ce ne discostiamo mai. Don Juan Matus ci fornì il formidabile esempio di un uomo che viveva secondo ciò che diceva. E dico che è un esempio formidabile perché è la cosa più difficile da emulare; essere monolitici e allo stesso tempo avere la possibilità di fronteggiare qualsiasi cosa. Questo era il modo in cui don Juan visse la sua vita.
      Date queste premesse, l'unica cosa che si può essere è un mediatore impeccabile. Non si è giocatori in questa cosmica partita a scacchi, si è solo pedine sulla scacchiera. Ciò che decide tutto è un'energia consapevole ed impersonale che gli stregoni chiamano Intento o lo Spirito.

D: Per quanto ho potuto constatare, l'antropologia ortodossa, così come i presunti difensori dell'eredità culturale pre-colombiana dell'America, minano la credibilità del suo lavoro. La convinzione che il suo lavoro sia semplicemente il prodotto del suo talento letterario, che, in ogni caso, è eccezionale, oggi continua ad esistere. Anche in altri ambiti la accusano di avere doppi valori perché, presumibilmente, la sua vita e le sue attività contraddicono ciò che la maggioranza si aspetta da uno sciamano. Come può dissipare questi sospetti?

R: Il sistema cognitivo dell'uomo occidentale ci costringe a fare affidamento su idee preconcette. Noi basiamo i nostri giudizi su qualcosa che è sempre "a priori", per esempio l'idea di ciò che è "ortodosso". Che cosa è l'antropologia ortodossa? Quella insegnata nelle sale di conferenza universitarie? Qual'è il comportamento di uno sciamano? Mettersi piume sulla testa e ballare per gli spiriti?
      Sono trenta anni che la gente accusa Carlos Castaneda di aver creato un personaggio letterario solo perché ciò che riporto non concorda con gli "a priori" antropologici, le idee stabilite nelle aule o sul campo di lavoro antropologico. In ogni caso ciò che don Juan mi presentò può applicarsi solo ad una situazione che richiede azione totale, in queste circostanze, avviene molto poco o quasi nulla di preconcetto.
      Non sono mai riuscito a trarre delle conclusioni circa lo sciamanismo perché per farlo bisogna essere membri attivi nel mondo degli sciamani. Per uno scienziato sociale, diciamo per esempio un sociologo, è molto semplice arrivare a conclusioni sociologiche riguardo qualsiasi soggetto relazionato con il mondo occidentale, perché il sociologo è un membro attivo del mondo occidentale. Ma come può un antropologo, che passa al massimo due anni studiando altre culture, arrivare a conclusioni sicure a quel riguardo? Ci vuole una vita per poter acquisire l'appartenenza ad un mondo culturale. Io ho lavorato per più di trent'anni nel mondo cognitivo degli sciamani dell'antico Messico e, sinceramente, non credo che ciò mi permetterebbe di trarre delle conclusioni o addirittura di proporle.
      Ho discusso di questo con persone di diverse discipline e loro sembrano capire ed essere d'accordo con le premesse che sto presentando. Ma poi si girano e dimenticano ogni cosa sulla quale avevano convenuto e continuano a sostenere principi accademici "ortodossi", senza preoccuparsi della possibilità di un errore assurdo nelle loro conclusioni. Il nostro sistema cognitivo sembra essere impenetrabile.

D: Qual'è lo scopo di non permettere di essere fotografato, di registrare la sua voce o rendere noti i suoi dati biografici? Questo potrebbe influire su ciò che lei ha raggiunto nel suo lavoro spirituale e se sì, come? Non pensa che sapere chi lei sia veramente potrebbe essere utile per alcuni sinceri ricercatori della verità come modo di corroborare che è veramente possibile seguire il sentiero che lei promulga.?

R: In riferimento alle fotografie e ai dati personali, le altre tre apprendiste di don Juan ed io stesso seguiamo le sue istruzioni. Per uno sciamano come don Juan, la principale idea dietro l'astenersi dal rivelare i dati personali è molto semplice. E' imperativo lasciare da parte quello che egli chiamava "storia personale". Allontanarsi dal "me" è qualcosa di estremamente fastidioso e difficile. Ciò che gli sciamani come don Juan cercano è uno stato di fluidità dove il "me" personale non conta. Egli credeva che l'assenza di fotografie e dati personali influisca su chiunque entri in questo campo di azioni in modo positivo, sebbene subliminale. Noi abbiamo l'incessante abitudine di usare fotografie, registrazioni e dati personali, ognuno dei quali nasce dall'idea di importanza personale. Don Juan diceva che è meglio non sapere nulla di uno sciamano; in questo modo invece di incontrare una persona, si incontra un'idea che può essere sostenuta; l'opposto di ciò che succede nel mondo quotidiano dove abbiamo di fronte solo persone che hanno numerosi problemi psicologici ma non idee, tutte queste persone piene fino all'orlo di "io, io, io".

D: Coloro che la seguono, come dovrebbero interpretare la pubblicità e l'infrastruttura commerciale a lato del suo lavoro letterario e che circonda la conoscenza che lei e i suoi compagni diffondete? Qual'è la sua vera relazione con Cleargreen, Incorporated e le altre società (Laugan Productions, Toltec Artists)? Sto parlando di un legame commerciale.

R: A questo punto nel mio lavoro ho avuto bisogno di qualcuno capace di rappresentarmi in relazione alla diffusione delle idee di don Juan Matus. Cleargreen è una società che ha grandi affinità con il nostro lavoro, così come Laugan Productions e Toltec Artists. L'idea di diffondere gli insegnamenti di don Juan nel mondo moderno implica l'uso di mezzi commerciali e artistici che non sono alla mia personale portata. Come società aventi una affinità con le idee di don Juan, Cleargreen, Laugan Productions e Toltec Artists sono capaci di fornire i mezzi per divulgare ciò che io voglio divulgare.
      Nelle società impersonali c'è sempre una tendenza a dominare e trasformare ogni cosa venga presentata loro e adattarla alle loro proprie ideologie. Se non fosse per il sincero interesse di Cleargreen, Laugan Productions e Toltec Artists, ogni cosa detta da don Juan a quest'ora sarebbe stata trasformata in qualcos'altro.

D: C'è un gran numero di persone che in un modo o nell'altro, "si attaccano" a lei per acquisire pubblica notorietà. Qual'è la sua opinione riguardo alle azioni di Victor Sanchez, che ha interpretato e riorganizzato i suoi insegnamenti per elaborare una teoria personale? E dell'asserzione di Ken Eagle Feather che è stato scelto da don Juan per essere il suo discepolo, e che don Juan tornò indietro solo per lui?

R: Effettivamente c'è un gran numero di persone che si autodefiniscono miei studenti o studenti di don Juan, persone che non ho mai incontrato e che, posso garantire, don Juan non incontrò mai. Don Juan Matus era interessato esclusivamente alla perpetuazione del suo lignaggio di sciamani. Ebbe quattro apprendisti che sono qui ancora oggi. Ne ebbe altri che partirono con lui. Don Juan non era interessato all'insegnamento della sua conoscenza; la insegnò ai suoi discepoli perché continuassero il suo lignaggio. Dato che non possono continuare il lignaggio, i suoi quattro discepoli sono obbligati a divulgare le sue idee.
      Il concetto di un maestro che insegna la sua conoscenza è parte del nostro sistema cognitivo ma non è parte del sistema cognitivo degli sciamani del Messico antico. Insegnare era assurdo per loro. Trasmettere la sua conoscenza a quelli che avrebbero perpetuato il loro lignaggio era una questione differente.
      Il fatto che ci sia un numero di individui che insistono ad usare il mio nome o il nome di don Juan è semplicemente una facile manovra per trarre dei vantaggi senza troppo sforzo.

D: Consideriamo che la parola "spiritualità" significhi stato di coscienza in cui gli esseri umani sono pienamente in grado di controllare i potenziali della specie, qualcosa raggiungibile dalla trascendenza della semplice condizione animale attraverso una dura preparazione psichica, morale e intellettuale. E' d'accordo con questa asserzione? Com' è integrato il mondo di don Juan in questo contesto?

R: Per don Juan Matus, uno sciamano pragmatico ed estremamente sobrio, "spiritualità" era un'idealità vuota, un'asserzione senza basi che noi crediamo essere molto bella perché è rivestita di concetti letterari ed espressioni poetiche, ma che non va mai oltre quello.
      Gli sciamani come don Juan sono essenzialmente pratici. Per loro esiste solo un universo predatorio in cui intelligenza o consapevolezza sono il prodotto di sfide di vita o di morte. Egli si considerava un navigatore dell'infinito e diceva che per navigare nell'ignoto, come fa uno sciamano, si ha bisogno di pragmatismo illimitato, sconfinata sobrietà e fegato d'acciaio.
      In vista di tutto questo, don Juan credeva che la "spiritualità" fosse semplicemente una descrizione di qualcosa di impossibile da raggiungere all'interno degli schemi del mondo della vita quotidiana, e che non fosse un vero modo di agire.

D: Lei ha sottolineato che la sua attività letteraria, così come quella di Taisha Abelar e di Florinda Donner-Grau, è il risultato delle istruzioni di don Juan. Qual'è lo scopo di questo?

R: Lo scopo di scrivere quei libri fu dato da don Juan. Egli asserì che anche se non si è scrittori si può scrivere, ma lo scrivere è trasformato da azione letteraria in azione sciamanistica. Ciò che decide il soggetto e lo svolgimento di un libro, non è la mente dello scrittore ma piuttosto una forza che gli sciamani considerano essere la base dell'universo, e che loro chiamano intento. E' l'intento che decide la produzione di uno sciamano, che sia letteraria o di qualsiasi altro genere.
      Secondo don Juan un praticante di sciamanismo, ha il dovere e l'obbligo di saturare se stesso con tutte le informazioni possibili. Il lavoro degli sciamani è di informarsi accuratamente su ogni cosa che potrebbe avere relazione con argomenti di loro interesse. L'atto sciamanistico consiste nell'abbandonare tutto l'interesse nel dirigere il corso delle informazioni prese. Don Juan era solito dire: "Ciò che organizza le idee che erompono da una tale fonte di informazioni non è lo sciamano, è l'intento. Lo sciamano è semplicemente un condotto impeccabile." Per don Juan scrivere era soltanto una sfida sciamanistica, non un compito letterario.

D: Se lei mi permette di asserire ciò che segue, il suo lavoro letterario presenta concetti che hanno stretta relazione con insegnamenti filosofici orientali, ma contraddice ciò che comunemente si conosce circa la cultura indigena messicana. Quali sono le similitudini e le differenze tra l'una e l'altra?

R: Non ne ho la minima idea. Non sono un esperto di nessuna delle due. Il mio lavoro consiste in un rapporto fenomenologico sul mondo cognitivo al quale don Juan Matus mi introdusse. Dal punto di vista della fenomenologia come metodo filosofico, è impossibile fare asserzioni che siano relazionate al fenomeno in esame. Il mondo di don Juan è così vasto, così misterioso e contraddittorio, che non si presta ad un esercizio di esposizione lineare; il massimo che si può fare è descriverlo, e anche solo questo è uno sforzo supremo.

D: Presupponendo che gli insegnamenti di don Juan siano diventati parte della letteratura occulta, qual'è la sua opinione circa altri insegnamenti in questa categoria, per esempio la filosofia massonica, il Rosacrucianesimo, l'Ermetismo e discipline come la Cabala, i Tarocchi e l'Astrologia quando le compariamo al nagualismo? Ha mai avuto o mantiene qualche contatto con qualcuna di queste o con i loro devoti?

R: Ancora una volta, non ho la minima idea di quali siano le premesse, o i punti di vista e i soggetti di queste discipline. Don Juan ci presentò il problema di navigare nell'ignoto e questo richiede tutto il nostro sforzo disponibile.

D: Alcuni concetti del suo lavoro, come il punto d'assemblaggio, i filamenti energetici che costituiscono l'universo, il mondo degli esseri inorganici, l'intento, l'agguato e il sognare, hanno un equivalente nella conoscenza occidentale? Per esempio, ci sono alcune persone che ritengono che l'uomo visto come uovo luminoso sia un modo di definire l'aura.

R: Per quanto ne so, nulla di ciò che don Juan ci insegnò sembra avere una controparte nella conoscenza occidentale.
      Una volta, quando don Juan era ancora qui, passai un anno intero in cerca di guru, maestri e saggi che mi dessero un accenno di ciò che stavano facendo. Volevo sapere se c'era qualche cosa al mondo in quel tempo simile a ciò che don Juan diceva e faceva.
      Le mie risorse erano molto limitate e mi portarono solo ad incontrare maestri celebrati che avevano milioni di seguaci e sfortunatamente non trovai alcuna similitudine.

D: Concentrandosi specificatamente sul suo lavoro letterario, i suoi lettori trovano differenti Carlos Castaneda. Prima troviamo uno studioso occidentale un pò incompetente, permanentemente confuso dal potere di vecchi indiani come don Juan e don Genaro (principalmente in A Scuola dallo Stregone, Una Realtà Separata, Viaggio a Ixtlan, L'Isola del Tonal, ed Il Secondo Anello del Potere). Più tardi troviamo un apprendista esperto in sciamanismo (ne Il Dono dell'Aquila, Il Fuoco dal Profondo, e particolarmente ne L'Arte del Sognare). Se lei è d'accordo con questa valutazione, quando e come cessò di essere l'uno per divenire l'altro?

R: Non mi considero uno sciamano o un maestro, o uno studente di sciamanismo ad un livello avanzato; n´ mi considero un antropologo o uno scienziato sociale nel mondo occidentale. Le mie presentazioni sono state tutte descrizioni di un fenomeno che è impossibile discernere sotto le condizioni della conoscenza lineare del mondo occidentale. Non potrei mai spiegare cosa don Juan mi stava insegnando in termini di causa ed effetto. Non c'era modo di predire cosa stesse per dire o cosa stesse per succedere. In tali circostanze, il passaggio da uno stato all'altro è soggettivo, e non qualcosa di elaborato, premeditato o un prodotto di saggezza.

D: Si possono trovare episodi nel suo lavoro letterario che sono veramente incredibili per la mente occidentale. Come può chi non è un iniziato verificare che tutte quelle "realtà separate" sono reali come lei dichiara?

R: Può essere facilmente verificato coinvolgendo il proprio intero corpo invece della sola mente. Non si può entrare nel mondo di don Juan intellettualmente, come un dilettante che cerca conoscenza veloce e rapida. Né, nel mondo di don Juan, nulla può essere verificato con certezza. La sola cosa che possiamo fare è di arrivare ad uno stato di consapevolezza accresciuta che ci permetta di percepire il mondo intorno a noi in una maniera più inclusiva. In altre parole, la meta dello sciamanismo di don Juan è di rompere i parametri della percezione storica e quotidiana e di percepire l'ignoto. Questo è il motivo per cui egli si definiva un navigatore dell'infinito. Asseriva che l'infinito si trova dietro i parametri della percezione quotidiana. Rompere questi parametri era lo scopo della sua vita. Poiché era uno sciamano straordinario, egli instillò quel medesimo desiderio in tutti e quattro noi. Ci forzò a trascendere l'intelletto ed incorporare il concetto di rompere i parametri della percezione storica.

D: Lei asserisce che la caratteristica basilare degli esseri umani è di essere "percettori di energia". Si riferisce al movimento del punto d'assemblaggio come a un fattore necessario per percepire l'energia direttamente. Come può questo essere utile ad un uomo del 21° secolo? Secondo i concetti definiti precedentemente, come può il conseguimento di questa meta aiutare il progresso spirituale di qualcuno?

R: Gli sciamani come don Juan asseriscono che tutti gli esseri umani hanno la capacità di vedere l'energia direttamente così come fluisce nell'universo. Credono che il punto d'assemblaggio, come lo chiamano, è un punto che esiste nella sfera totale di energia dell'uomo. In altre parole, quando uno sciamano percepisce un uomo come energia che fluisce nell'universo, vede una palla luminosa. In quella palla luminosa, lo sciamano può vedere un punto di maggiore brillantezza, situato all'altezza delle scapole, approssimativamene ad un braccio di distanza dietro di esse. Gli sciamani sostengono che la percezione viene assemblata in questo punto; che l'energia che fluisce nell'universo viene qui trasformata in dati sensoriali, e che i dati sensoriali vengono poi interpretati, dando come risultato il mondo della vita quotidiana. Gli sciamani asseriscono che ci viene insegnato a interpretare, e di conseguenza a percepire.
      Il valore pragmatico di percepire l'energia direttamente come fluisce nell'universo è lo stesso per un uomo del 21° secolo o per un uomo del 1° secolo. Gli permette di allargare i limiti della sua percezione e di usare questo accrescimento all'interno del suo mondo. Don Juan diceva che sarebbe straordinario vedere direttamente la meraviglia dell'ordine e del caos dell'universo.

D: Lei ha presentato recentemente una disciplina fisica chiamata Tensegrità. Può spiegare che cosa è esattamente? Qual'è il suo scopo? Quale beneficio spirituale può ottenere una persona che la pratica individualmente?

R: Secondo ciò che don Juan Matus ci insegnò, gli sciamani che vissero nel Messico antico scoprirono una serie di movimenti che quando eseguiti dal corpo determinavano un tale benessere fisico e mentale che decisero di chiamare quei movimenti passi magici.
      Don Juan ci disse che attraverso i loro passi magici, quegli sciamani raggiunsero un accresciuto livello di coscienza che permise loro di realizzare indescrivibili prodezze di percezione.
      Nel corso delle generazioni, i passi magici furono insegnati solamente a praticanti di sciamanismo. I movimenti furono circondati da enorme segretezza e rituali complessi. Questo è il modo in cui don Juan li imparò e questo è il modo in cui li insegnò ai suoi quattro apprendisti.
      Il nostro sforzo è stato di estendere l'insegnamento di tali passi magici a chiunque volesse impararli. Li abbiamo chiamati Tensegrità, e li abbiamo trasformati da specifici movimenti pertinenti solo ad ognuno dei quattro discepoli di don Juan, a movimenti generali adatti a tutti.
      Praticare la Tensegrità, individualmente o in gruppo, promuove salute, vitalità, giovinezza e un senso generale di benessere. Don Juan diceva che praticare i passi magici aiuta ad accumulare l'energia necessaria ad aumentare la consapevolezza e ad espandere i parametri della percezione.

D: Oltre alle sue tre compagne, la gente che partecipa ai suoi seminari, ha incontrato altre persone, come le Chacmools, le Inseguitrici dell'Energia, gli Elementi, l'Esploratore Azzurro.....chi sono? Sono parte di una nuova generazione di veggenti guidati da lei? Se così fosse, come si può diventare parte di questo gruppo di apprendisti?

R: Ognuna di queste persone è un essere specifico che don Juan Matus, come guida del suo lignaggio, ci chiese di aspettare. Predisse l'arrivo di ognuno di loro come parte integrale di una visione. Poiché il lignaggio di don Juan non poteva continuare, a causa della configurazione energetica dei suoi quattro studenti, il loro compito fu trasformato dal perpetuare il lignaggio al chiuderlo, se possibile con una fibbia d'oro.
      Noi non siamo nella posizione di cambiare queste istruzioni. N´ possiamo cercare o accettare apprendisti o membri attivi della visione di don Juan. L'unica cosa che possiamo fare è di accettare i disegni dell'Intento.
      Il fatto che i passi magici, protetti con tale gelosia per così tante generazioni, oggi vengano insegnati, è prova che si può davvero in maniera indiretta, divenire parte di questa nuova visione attraverso la pratica della Tensegrità e seguendo le premesse della via del guerriero.

D: In Lettori dell'Infinito, lei ha usato il termine "navigare" per definire ciò che fanno gli stregoni. State issando le vele per cominciare presto il viaggio definitivo? Il lignaggio dei guerrieri toltechi custodi di questa conoscenza, finirà con voi?

R: Si, è esatto, il lignaggio di don Juan finisce con noi.

D: C'è una domanda che mi sono posto spesso: la strada del guerriero include come fanno altre discipline, lavoro spirituale per coppie?

R: La strada del guerriero include tutto e tutti. Ci può essere un'intera famiglia di guerrieri impeccabili. La difficoltà si trova nel terribile fatto che le relazioni individuali sono basate su investimenti emotivi, e nel momento in cui il praticante mette veramente in pratica ciò che lei/lui ha imparato, la relazione si frantuma. Nel mondo di ogni giorno, gli investimenti emozionali normalmente non sono esaminati, e viviamo un'intera vita aspettando di essere ricambiati. Don Juan disse che ero un investitore duro a morire e che il mio modo di vivere e provare sentimenti poteva essere descritto semplicemente: "Io do solo ciò che gli altri mi danno."

D: Quale aspirazione di un possibile miglioramento dovrebbe avere qualcuno che desideri lavorare spiritualmente secondo la conoscenza divulgata nei suoi libri? Che cosa raccomanderebbe a coloro che desiderano praticare gli insegnamenti di don Juan da soli?

R: Non c'é modo di porre un limite su ciò che si può realizzare individualmente se l'intento è un intento impeccabile. Gli insegnamenti di don Juan non sono spirituali. Lo ripeto perché la questione è emersa più e più volte. L'idea di spiritualità non calza con la disciplina di ferro di un guerriero. La cosa più importante per uno sciamano come don Juan, è l'idea di pragmatismo. Egli distrusse le mie velleità e mi fece vedere che, da vero uomo occidentale, non ero né pragmatico né spirituale. Arrivai a capire che ripetevo la parola "spiritualità" per contrastarla con l'aspetto mercenario del mondo della vita quotidiana. Volevo fuggire dal mercantilismo del mondo della vita di ogni giorno ed il forte desiderio di fare questo lo chiamavo spiritualità. Realizzai che don Juan aveva ragione quando pretendeva che arrivassi ad una conclusione; di definire ciò che consideravo spiritualità. Non sapevo di che cosa stessi parlando.
      Quello che sto dicendo potrebbe suonare presuntuoso, ma non c'è altro modo di dirlo. Ciò che uno sciamano come don Juan vuole è aumentare la consapevolezza, cioè essere capaci di percepire con tutte le possibilità umane di percezione; questo implica un compito colossale ed uno scopo inflessibile, che non può essere rimpiazzato dalla spiritualità dell'uomo occidentale.

D: C'è qualcosa che lei vorrebbe spiegare alla gente sud-americana, in special modo ai cileni? Vorrebbe fare qualche altra dichiarazione in aggiunta alle sue risposte alle nostre domande?

R: Non ho nulla da aggiungere. Tutti gli esseri umani sono allo stesso livello. All'inizio del mio apprendistato, don Juan Matus provò a farmi vedere come la situazione dell'uomo fosse comune a tutti. Io, da sudamericano, ero molto coinvolto, intellettualmente, con l'idea della riforma sociale. Un giorno rivolsi a don Juan quella che pensavo fosse una domanda assoluta: Come può rimanere impassibile di fronte alla situazione terribile dei suoi compagni uomini, gli indiani yaqui di Sonora?
      Sapevo che una certa percentuale della popolazione yaqui soffriva di tubercolosi e che, a causa della loro situazione economica, non potevano curarsi.
      "Sì", disse don Juan, "E' una cosa molto triste ma, vedi, anche la tua situazione è molto triste, e se credi di essere in condizioni migliori degli indiani yaqui, ti stai sbagliando. In generale la condizione umana è in un orrendo stato di caos. Nessuno sta meglio di un altro. Siamo tutti esseri che stanno andando a morire e, a meno di essere consapevoli di questo, per noi non c'è rimedio."
      Questo è un'altro punto del pragmatismo degli sciamani: divenire consapevoli che siamo esseri che stanno andando a morire. Essi dicono che quando impariamo questo, tutto acquista un ordine e una misura trascendentali.

trovata qui: http://www.cleargreen.com/mirrors/italian/interviews/index.htm

giovedì 26 novembre 2009

È TUTTO DENTRO


C’era una volta un anziano che passava i giorni seduto vicino ad un pozzo all’entrata di un paese. Un giorno, un giovane gli si avvicinò e gli chiese: “Io non sono mai venuto da queste parti, come sono gli abitanti di questa città?” L’anziano gli rispose con un’altra domanda:
“Come erano gli abitanti della città dalla quale vieni?”
Egoisti e malvagi, per questo motivo mi sento contento di essere andato via di là”.
“Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose l’anziano.
Un po’ dopo, un altro giovane si avvicinò all’anziano e gli fece la stessa domanda: “Sto arrivando in questo luogo, come sono gli abitanti di questa città?”
L’anziano, di nuovo, gli rispose con la stessa domanda:
“Come erano gli abitanti della città da dove vieni?”
“Erano buoni, generosi, ospitali, onesti, lavoratori. Avevo molti amici e mi è costato
molto separarmi da loro”.
“Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose l’anziano.
Un uomo che aveva portato i suoi animali a bere acqua al pozzo e che aveva ascoltato la conversazione, non appena il giovane se allontanò disse all’anziano: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda fatta da due persone?”
“Guarda” - gli rispose - “ognuno porta l’universo nel suo cuore”.
“Chi non ha trovato niente di buono nel suo passato, tanto meno lo troverà qui”.
Invece, quello che aveva amici nella sua città, troverà anche qui amici leali e fedeli.
Perché le persone sono ciò che trovano in se stesse, trovano sempre quello che si aspettano di trovare”.
“TUTTO IL BUONO E IL BELLO DELLA VITA DI CUI HAI BISOGNO LO PORTI DENTRO DI TE. SEMPLICEMENTE LASCIALO USCIRE”

martedì 17 novembre 2009




-NOVERO DEI VALAR-


Nel principio Eru, l’Uno, che nella lingua elfica è detto Ilùvatar, creò gli Ainur dalla propria mente; e gli Ainur intonarono una Grande Musica al suo cospetto. In tale Musica, il Mondo ebbe inizio, poiché Ilúvatar rese visibile il canto degli Ainur, e costoro lo videro quale una luce nell’oscurità. E molti di loro si innamorarono della sua bellezza e della sua vicenda che videro cominciare e svolgersi come in visione. Per tale ragione Ilúvatar conferì Essere alla loro visione, e la collocò in mezzo al Vuoto, e il Fuoco Segreto fu inviato ad ardere nel cuore del Mondo; e questo fu chiamato Eä. Poi, quelli degli Ainur che lo desideravano si levarono ed entrarono nel Mondo al principio del Tempo; e il loro compito fu di completarlo, e con le loro fatiche di attuare la visione che avevano scorto. A lungo essi travagliarono nelle regioni di Eä, la cui vastità trascende il pensiero di Elfi e Uomini, finche a tempo debito fu fatta Arda, il Regno della Terra. Poi essi assunsero abito terrestre, e in essa scesero e vi dimorarono.

I VALAR
I Grandi tra questi spiriti, dagli Elfi son detti Valar, cioè le Potenze di Arda, e gli Uomini li hanno spesso denominati dei. Sette sono i signori dei Valar; e sette sono anche le Valier, le Regine dei Valar. Questi i loro nomi nella lingua elfica parlata a Valinor, benché altri ne abbiano nel linguaggio degli Elfi nella Terra di Mezzo, e plurimi siano i loro nomi tra gli Uomini. Ecco, nel debito ordine, i nomi dei Signori: Manwë, Ulmo, Aulë, Oromë, Mandos, Lórien e Tulkas; e i nomi delle Regine sono: Varda; Yavanna, Nienna, Estë, Vairë, Vána e Nessa. Melkor non è più annoverato tra i Vala, e il suo nome non viene pronunciato sulla Terra.
Manwë e Melkor erano fratelli nella mente di Ilùvatar. Il più possente di quegli Ainur che vennero nel Mondo era, all’inizio, Melkor; Manwë però il più caro a Ilùvatar, quegli che più chiaramente ne intende i propositi. Egli era destinato ad essere, nella pienezza dei tempi, il primo di tutti i Re: signore del reame di Arda e sovrano di quanto vi dimora. In Arda, il suo diletto sono i venti e le nuvole, e tutte le regioni dell’aria, dalle supreme altezze alle profondità, dagli estremi confini del Velo di Arda alle brezze che alitano tra l’erba. Súlimo è il suo soprannome, cioè Signore del Respiro di Arda. Tutti gli uccelli veloci, forti d’ala, egli ama, ed essi vanno e vengono al suo comando. Con Manwë dimora Varda, Signora delle Stelle, che conosce tutte le regioni di Eä. Troppo grande è la sua bellezza per essere detta con le parole di Uomini o di Elfi; chè la luce di Ilùvatar ancora le splende in volto. Nella luce sono la sua potenza e la sua gioia. Dalle profondità di Eä essa è uscita per dare aiuto a Manwë; chè Melkor essa lo conosceva prima che fosse fatta la Musica e l’aveva respinto, ed egli la odiava e la temeva più di quant’altri Eru avesse creato. Manwë e Varda raramente si separano, ed essi rimangono in Valinor. Le loro aule stanno più in alto delle nevi eterne, sopra Oiolossë, la più sublime torre di Taniquetil, la più alta di tutte le montagne della Terra. Quando Manwë quivi si siede sul trono e si guarda attorno, e Varda è seduta accanto a lui, i suoi occhi vedono più in là di ogni altro occhio, attraverso brume e tenebre, oltre leghe e leghe di mare. E se Manwë è con lei, l’orecchio di Varda ode più chiaramente di ogni altro orecchio il suono di voci che clamino da est e da ovest, da colli e da valli e dai luoghi bui che Melkor ha fatto sulla Terra. Di tutti i Grandi che dimorano in questo mondo, gli Elfi riveriscono e amano soprattutto Varda. Elbereth, così la chiamano, e ne invocano il nome dalle ombre della Terra di Mezzo e lo estollono in canti al sorgere delle stelle.
Ulmo è il Signore delle Acque. Egli sta solo. Non dimora a lungo in nessun luogo, ma si muove a piacimento in tutte le acque profonde sopra e sotto la Terra. È appena inferiore per potenza a Manwë, e prima che Valinor fosse fatta era il suo amico più intimo: da allora, però, di rado si è recato ai concili dei Valar, se non per trattare questioni di grande momento. Egli infatti ha tutta quanta Arda nella propria mente e non ha necessità di alcuna dimora. Inoltre, non ama camminare sulla Terra, e di rado si veste di un corpo a mo’ dei suoi pari. Se i Figli di Eru lo scorgevano, venivano colti da grande sgomento, poiché il levarsi del Re del Mare era terribile, a guisa di montante onda che s’avventi alla terra con scuro elmo crestato di schiuma e coperta di cotta svariante dall’argento alle tonalità del verde. Le trombe di Manwë sono fragorose, ma la voce di Ulmo è profonda come le profondità dell’oceano che lui solo ha visto.
Ciò non toglie che Ulmo ami sia Elfi che Uomini, e mai li abbandoni, anche quando sono colpiti dall’ira dei Valar. A volte egli approda, non visto, sulle rive della Terra di Mezzo o si spinge all’interno lungo estuari, e quivi intona musica con i suoi grani corni, gli Ulumúri, che sono ricavati da candide conchiglie; e color ai quali quella musica giunge, sempre più la odono nei loro cuori, e il desiderio del mare mai più li abbandona. Ma, soprattutto, Ulmo parla a coloro che abitano nella Terra di Mezzo con voci che sono udite soltanto come musica dell’acqua, poiché tutti i mari e i laghi sono sotto il suo dominio; sicché gli Elfi sostengono che lo spirito di Ulmo scorra per tutte le vene del mondo. E così accade che a Ulmo pervengano, persino nelle profondità, notizie di tutti i bisogni e pene di Arda, che altrimenti resterebbero celate a Manwë.
Aulë è dotato di potenza poco inferiore a quella di Ulmo. Il suo dominio si esercita su tutte le sostanze onde è fatta Arda. All’inizio, molto ha operato di conserva con Manwë e Ulmo; e sua fattura è plasamazione di tutte le terre. Egli è un fabbro e maestro in tutti i mestieri, e trae diletto da lavori d’abilità, ancorché minuti, non meno che della possente edificazione d’un tempo. Sue sono le gemme che giacciono nel profondo della Terra, suo l’oro bello da tenere in mano, non meno delle pareti dei monti e dei bacini dei mari. I Noldor hanno imparato soprattutto da lui, che è sempre stato loro amico. Melkor ne era geloso, perché Aulë era assai simile a lui per mente e poteri; e vi è sta discordia tra loro, con Melkor che sempre guastava o sfaceva le opere di Aulë, e questi s’affaticava a mettere riparo ai tumulti e ai disordini provocati da Melkor. Entrambi desideravano far cose proprie, le quali fossero nuove e impensate da altri, e ricavavano piacere dalla lode per la loro abilità. Aulë però restava fedele a Eru, assoggettando alla sua volontà tutto ciò che faceva; e non invidiava le opere altrui, ma domandava e offriva consiglio. Melkor invece era tutto invidia e odio, sì che alla fine non poté far nulla se non a derisione del pensiero di altri cui distruggeva, quando poteva, ogni opera.
La sposa di Aulë è Yavanna, la Dispensatrice di Frutti. Essa ama tutte le cose che crescono sulla terra, e ne conserva nella propria mente le innumerevoli forme, da quelle degli alberi simili a torri nelle foreste d’un tempo, al muschi sulle pietre o alle piccole e segrete cose nell’argilla.
Tra le Regine dei Valar, Yavanna è riverita quasi quanto Varda. In forma di donna è alta, vestita di verde; a volte però assume anche altri sembianti. Certuni l’han vista starsene come un albero sotto il cielo, coronata dal Sole; e da tutti i suoi rami stillava una rugiada dorata sulla terra spoglia, che si rivestiva di verde grano; le radici dell’albero s’affondano però nelle acque di Ulmo, e i venti di Manwë parlano tra le sue foglie. Kementári, Regina della Terra, così e soprannominata nella lingua degli Eldar.
I Fëanturi, signori di spiriti, sono fratelli, e per lo più son detti Mandos e Lórien. Questi però a rigor di termine sono i nomi dei luoghi in cui dimorano, mentre i loro nomi sono Námo e Irmo.
Námo, il maggiore, dimora in Mandos, che si trova nella parte occidentale di Valinor. Egli è il custode delle Case dei Morti, colui che convoca gli spiriti del massacro. Nulla dimentica; e conosce tutte le cose che saranno, eccezion fatta soltanto per quelle che ancora stanno nel libero arbitro di Ilùvatar. Egli è preposto al destino dei Valar; ma pronuncia le sue sentenze e i suoi giudizi soltanto al comando di Manwë. Vairë la Tessitrice è la sua sposa, la quale iscrive nelle sue reti istoriate tutte le cose che mai sian state nel Tempo, e le aule di Mandos, che sempre più si dilatano a mano a mano che le era passano, ne sono tappezzate.
Irmo, il minore, è signore delle visioni e dei sogni. I suoi giardini stanno in Lórien, nella terra dei Valar, e sono i più belli di tutti i luoghi del mondo, affollati di molti spiriti. Estë la gentile,che medica ferite e stanchezza, è la sua sposa. Grigio è l’abito di Estë; e il riposo è il suo dono, di giorno non s’aggira, ma dorme su un’isola nel lago di Lórellin ombreggiato d’alberi. Dalle fonti di Irmo ed Estë, tutti coloro che dimorano in Valinor traggono riposto e sollievo dal fardello di Arda.
Più potente di Estë è Nienna, sorella dei Fëanturi; essa dimora da sola. Le è noto il dolore, e si lamenta di ogni ferita sofferta da Arda per i guasti di Melkor. Così grande fu la sua pena quando la Musica eruppe, che il suo canto si trasformò in lamento assi prima che terminasse, e che questo avesse inizio. Ma essa non piange per sé; e coloro che la odono, apprendono la pietà e a perseverare nella speranza. Le sue aule si trovano ad occidente dell’Occaso, ai confini del mondo; di rado essa viene alla città di Valimar, dove tutto è letizia. Si reca piuttosto alle aule di Mandos, poste vicino alle sue; e tutti color che in Mandos attendono, la invocano perché essa arreca forza di spirito e trasforma il dolore in saggezza. Le finestre di casa sua guardano fuori dalle pareti del mondo.
Massimo in forza e atti di prodezza è Tulkas, soprannominato Astaldo, il Valoroso. Egli è giunto per ultimo in Arda, ad aiutare i Valar nelle prime battaglie con Melkor. Trae piacere dalla lotta e dalle prove di forza; e non cavalca destriero, per la semplice ragione che può superarene alla corsa tutte le creature che vanno a piedi, ed è instancabile. Ha i capelli e la barba dorati, il suo incarnato è roseo; le sue armi sono le mani. Poco si cura sia del passato che del futuro,e a nulla vale come consigliere, ma è un amico costante. Sua sposa è Nessa, la sorella di Oromë, la quale è anch’essa agile e pieveloce. Ama i daini, che la seguono in corteo ovunque vada per le selve; ma essa può superarli alla corsa, veloce come una freccia, i capelli al vento. Trae diletto dalla danza, e a Valimar danza su prati dal verde sempre intatto.
Oromë è un possente signore. Ha forza minore di Tulkas, ed è più spaventoso nella collera; laddove Tulkas sempre ride, nel diporto e in guerra, e anche in faccia a Melkor rideva durante le battaglie di prima che gli Elfi nascessero. Oromë amava le contrade della Terra di Mezzo, e le lasciò a contraggenio e giunse per ultimo in Valinor; e sovente, in tempi antichi, riandava ad est superando i monti, e con il suo esercito tornava ai colli e alle piane. È un cacciatore di mostri e bestie feroci, che si diletta di cavalli e cani; e ama tutti gli alberi, ragion per cuoi è detto Aldaron e, dai Sindar, Tauron, cioè Signore di Foreste. Nahar è il nome del suo cavallo, bianco al sole e che splende argenteo la notte. Valaróma, così si chiama il suo grande corno, il cui suono è simile all’ascendere del Sole nello scarlatto o al lampo che si staglia squarciando le nuvole. Lo si udiva al di sopra di tutti i corni del suo esercito, nei boschi che Yavanna ha fatto crescere in Valinor; ché ivi Oromë addestrava le sue genti e le sue bestie all’inseguimento delle cattive creature di Melkor. La sposa di Oromë è Vána, la Sempregiovane; è la sorella minore di Yavanna; fiori d’ogni genere sbocciano ovunque passa e si aprono se vi posa sopra lo sguardo; a al suo giungere cantano tutti gli uccelli.

Questi sono i nomi dei Valar e delle Valier, e si è dato conto in breve del loro sembiante, quali gli Eldar li videro in Aman. Ma, per belle e nobili che fossero le forme con cui si manifestavano ai Figli di Ilùvatar, non erano che un velo che ne ricoprivano la bellezza e la potenza. E, se poco qui si dice di tutto ciò che gli Eldar un tempo sapevano, è un nulla se paragonato al loro vero essere, che rimonta a regioni ed ere di gran lunga trascendenti il nostro pensiero. Tra essi, Nove erano supremi in potere e in considerazione; uno però è stato tolto dal novero, e ne restano Otto, gli Aratar, i Supremi di Arda: Manwë e Varda, Ulmo, Yavanna e Aulë, Mandos, Nienna e Oromë. Benché Manwë sia il loro Re e li mantenga soggetti a Eru, per maestà sono pari, superiori al confronto di chiunque altro, sia dei Valar che dei Maiar, e a ogni altra specie inviata da Ilùvatar in Eä.

I MAIAR

In una con i Valar giunsero gli altri spiriti la cui esistenza del pari ebbe inizio prima del Mondo, dello stesso ordine dei Valar ma di grado minore. E sono costoro i Maiar, il popolo dei Valar e i loro servi e ausiliari. Il loro numero è ignoto agli Elfi, e pochi tra loro hanno nomi in questa o quella delle lingue dei Figli di Ilùvatar; ché, sebbene altrimenti stiano le cose in Aman, nella Terra di Mezzo ben di rado i Maiar si sono mostrati in forma visibile a Elfi e Uomini.
I principali tra i Maiar di Valinor i cui nomi sono ricordati nelle storie dei Giorni Antichi, sono Ilmarë, l’ancella di Varda, ed Eönwë, l’alfiere e araldo di Manwë, la cui possanza nel maneggio delle armi non è superata da nessuno in Arda. Ma, fra tutti i Maiar, Ossë e Uinen sono i più noti ai Figli di Ilùvatar.
Ossë è un vassallo di Ulmo, ed egli è il signore delle acque che lambiscono le rive della Terra di Mezzo. Non scende nelle profondità, ma ama le coste e le isole e si delizia dei venti di Manwë, ché nella tempesta egli gioisce e ride tra il fragore delle onde. Sua sposa è Uinen, la Signora dei Mari, i cui capelli sono sparsi per tutte le acque sotto il cielo. Tutte le creature essa ama che vivono nelle salse correnti, e tutte le erbe che vi crescono; lei invocano i marinai, poiché essa può giacere tranquilla sulle onde, placando il furore di Ossë. I Númenórean a lungo vissero sotto la sua protezione, facendola oggetto di riverenza uguale a Valar.
Melkor odiava il mare perché non riusciva a sottometterlo. Si dice che durante la costruzione di Arda, tentasse di tirare dalla sua Ossë, promettendogli l’intero regno e il potere di Ulmo purché lo servisse. E così accadde che, molto tempo fa, nel mare si verificassero grandi tumulti che apportarono rovina alle terre. Ma Uinen, su preghiera di Aulë, raffrenò Ossë e lo portò al cospetto di Ulmo; ed egli fu perdonato e restituito alla sua obbedienza, alla quale è rimasto fedele. O, per meglio dire, quasi sempre, ché il piacere della violenza mai l’ha abbandonato del tutto, e a volte imperversa nella sua ostinazione, senza che glielo comandi Ulmo suo signore. Ragion per cui coloro che dimorano presso il mare o lo solcano a bordo di navi possono anche amarlo, ma non se ne fidano.
Melian era il nome di una Maia che serviva sia Vána che Estë; a lungo essa visse a Lórien, curando gli alberi che fioriscono nei giardini di Irmo, prima di portarsi nella Terra di Mezzo. Usignoli le cantavano tutt’attorno ovunque andasse.
Saggio sovra tutti i Maiar era Olórin. Anch’egli dimorava in Lórien, ma le sue strade lo conducevano spesso alla casa di Nienna, da cui apprese pietà e pazienza.
Di Melian molto si riferisce nel Quenta Silmarillion. Ma di Olórin non vi si fa parola; ché, sebbene amasse gli Elfi, s’aggirava tra loro invisibile oppure in forma di uno di essi, i quali ignoravano donde venissero le belle visioni o i suggerimenti di saggezza che metteva nei loro cuori. Più tardi, divenne amico di tutti i Figli di Ilúvatar, per i cui dolori si impietosiva; e coloro che lo ascoltavano si riscuotevano dalla disperazione e accantonavano le immaginazioni dell’oscurità.

I NEMICI

Per ultimo vien fatto il nome di Melkor, Colui che leva in Possanza. Ma è un nome, il suo, che egli ha usurpato; e i Noldor, che tra gli Elfi massimamente soffrivano la sua malizia, non lo pronunciano, chiamandolo invece Morgoth, lo Scuro Nemico del Mondo. Grande fu la potenza conferitogli da Ilúvatar, ed egli era coevo di Manwë. Era dotato dei poteri e della conoscenza di tutti gli altri Valar, ma li volgeva a perfidi scopi, e sperperava la propria forza in atti di violenza e di tirannide. Ché bramava Arda e tutto quanto vi si trovava, agognando al trono di Manwë e al dominio sui reami dei suoi pari.
Dallo splendore decadde, a causa dell’arroganza, al disprezzo di tutte le cose, salvo se stesso, spirito funesto e impietoso. La comprensione egli la trasformava in sottigliezza, onde pervertire e sottomettere alla propria volontà quanto gli servisse, fino a divenire mentitore svergognato. Cominciò con il desiderio di Luce, ma quando non poté impadronirsene in esclusiva, calò, tra fuoco e ira, in una grande fiammata, nel profondo della Tenebra. E della tenebra si servì soprattutto nelle sue malvagie opere su Arda, riempiendo di paura tutte le creature viventi..
Pure, tanto grande era la possanza della sua rivolta, che, in ere dimenticate, egli ebbe contesa con Manwë e tutti i Valar, e per molti anni in Arda ebbe dominio su gran parte delle contrade della Terra. Ma non era solo. Molti dei Maiar, infatti, vennero attratti dal suo splendore nei giorni della sua grandezza, e gli rimasero fedeli anche nella tenebra; e altri li corruppe in seguito, asservendoseli con menzogne e perfidi doni. Spaventosi tra questi spiriti erano i Valaraukar, i flagelli infuocati che nella Terra di Mezzo erano chiamati Balrog, demoni di terrore.
Tre quelli dei suoi servi che hanno nomi, il massimo era lo spirito che gli Eldar chiamavano Sauron, ovvero Gorthaur il Crudele, che all’origine fu dei Maiar di Aulë e continuò ad avere grande parte nella tradizione di quel popolo. In tutte le imprese di Melkor il Morgoth in Arda, in tutte le sue diramate opere e negli inganni della sua astuzia, Sauron aveva parte, ed era meno perfido del suo padrone solo in quanto a lungo servì un altro anziché se stesso. Ma in tardi anni si levò simile a ombra di Morgoth e a un fantasma della sua malizia, e lo seguì passo passo, lungo il rovinoso sentiero che lo trasse giù nel vuoto.
FINE DEL VALAQUENTA


Tratto da "Il Silmarillion" di J.R.R. Tolkien

domenica 8 novembre 2009

SI FA PRESTO A DIRE GNOSI



Lettera aperta ai neognostici fumettari marvellisti di ritorno

Al contrario di alcuni teologi cattolici sedevacantisti, teocon, focolarini, introvignini, etc etc, non è mia abitudine mettere l'iniziazione, l'esoterismo, ecc., nel calderone del diavolo. Ma da qui e considerare qualunque testo, linea iniziatica e dottrina dell'antichità, valida perché gnostica, ce ne passa. Ritengo problematico sempre gettare in piazza strumenti così affilati di cui non si conosce lo spirito, e, peggio, non si ha esperienza diretta. È come ritenere il cantautore siculo Franco Battiato un guru, sol perché cita il catalogo Adelphi nei testi delle sue canzonette. Suvvia, amici. Paolo predicò ai greci sull'Areopago che, dopo Cristo, anche i greci e tutti gli altri Gentili, risvegliati nell'anima, potevano attingere la Divinità: processo di deificazione del Nous.
Tutto è prefigurazione, dai miti greci, presi dall'antico Egitto e dall'India interiore, quindi il Cristianesimo è esoterismo per eccellenza. E l'esoterico non è in contrapposizione con l'essoterico: simboli,riti,sacramenti,misteri. Oltre la metafisica, ancorata ai testi sacri, c'è il Mistero. Senza alcuna remora, dopo anni di travagli esistenziali e conoscitivi, mi riapproprio anche della "gnosis"; anzi, la nostra conoscenza è anche epi-gnosis, cioè conoscenza suprema, da cui iniziazione suprema. Il cristiano vero è anche il vero gnostico. Ho praticato con aggiustamenti lo yoga per anni, scevro da implicazioni religiose, tuttavia siccome non si tratta solo di una tecnica anti-stress come ormai in Occidente è in uso, ho constatato che non si possono estrapolare le dottrine dall'ascesi e allora ho preferito lo "jugum Christi": ho intinto la mano nella sua Passione, Crocifissione e Morte, Resurrezione per essere salvato, poi se ci sono riuscito è un altro paio di maniche. Nigredo, Albedo e Rubedo.
Se escludiamo qualificazioni specialissime, per noi occidentali gli innamoramenti per la filosofia indiana, cinese e tibetana, sono a dir poco problematici. Pensate, credo che persino Guènon sia incorso in un deplorevole e drammatico errore spirituale, andandosi ad imbarcare in iniziazioni islamiche non proprio regolari, figuratevi cosa può accadere per i meno qualificati. Agli orientaleggianti in generale, vorrei dire che dimostrano di avere soltanto un'iniziazione libresca. Non si può impunemente amoreggiare con dottrine di altre tradizioni sapienziali o, peggio, di conventicole eterodosse. Nell'India profonda, quella lontana dai riflettori occidentali, si adora anche Gesù il Santissimo, il decimo Avatar, quello puntualizzante (ossia il punto nel cerchio). Quanto al tentativo, velleitario è dir poco, di taluni a ripristinare antiche sapienze, senza regolarità iniziatica, credo proprio che prendano un abbaglio colossale. Nessun mortale può far rivivere e vivificare simboli o riti di tradizioni sapienziali ormai estintesi, soltanto interventi celesti, micheliti per la precisione (in questo Steiner aveva subodorato qualcosa), possono ristabilire in terra ciò che si è spezzato. L'incontro col Re, questo è il vero significato di Messia, comporta la trasmutazione del DNA, una iniziazione quindi compiuta e totalizzante. Certo, non basta il rito, ci vuole ben altro, ma quella è la via.

martedì 3 novembre 2009

MEDITAZIONI IN PUNTA DI BLOG





Sì, intuitivamente e cognitivamente, sono una persona religiosa, ma non in un modo istituzionale. Sento fortemente che siamo singole parti di qualcosa. La cosa incredibile è che siamo su questa terra dopo tutto, anche se il provocatore che è in me vorrebbe dirmi che ciò è matematicamente meno incredibile rispetto alla possibilità che ci sia la vita dopo la morte, l’esistenza di altre dimensioni o la vita su altri pianeti. Quando gli esseri umani videro i fulmini per la prima volta, deve essergli scoppiato il cervello. Ma quando qualcuno vide il primo lampo, qualcun altro deve aver successivamente detto: “Eilà! Il nonno disse di aver incontrato qualcuno, che ha parlato di qualcuno il cui fratello ha sentito qualcuno parlare di queste cose". Ma oggi viviamo in un tempo che non ha più nulla di spirituale. Le persone non credono in niente e comprano cose per distrarsi, oppure appartengono a club del “io sono giusto”, “tu sei sfigato”, che dal punto di vista spirituale equivale a una Jaguar con i sedili rivestiti in pelle.
Forse la cosa migliore è passare qualche settimana nella più assoluta solitudine. Gesù e Buddha credevano fortemente in questo. Io l’ho fatto e sono arrivato a 14 giorni circa, dopo i quali ti senti capace di entrare in sintonia con tutto quanto ti circonda. Questa è per me la spiritualità. Le nuove generazioni sembrano annoiate e senza ideali. Molto è cambiato oggi rispetto agli anni 60 e 70, almeno così affermano i nostalgici. Non sono nella posizione per affermarlo con sicurezza. Suppongo che molte persone abbiano forse creduto in qualcosa. La vita è più facile se hai dei piani, degli obiettivi, anche se sono confusi. La vita è più semplice e significativa se credi in qualcosa dopotutto.
“Nature abhorring a vacuum” (“La natura aborrisce il vuoto”, di Ruggero Bacone) è molto di più che un concetto scientifico. E all’inizio c’era… qualcosa o qualcuno! Questa potrebbe essere il mio drive, perché no?

lunedì 26 ottobre 2009

REIKI, UNA VIA MINORE


Citiamo per chiarezza un esempio di iniziazione alchemica che si è oggi molto diffusa: il reiki. Benché questa pratica venga comunemente descritta come l’apertura di canali di “energia cosmica”, ciò è errato. In realtà si tratta di una tecnica che permette di ottenere una strutturazione alchemica all’interno dell’organismo in grado di irradiare un’energia rigenerante attraverso le mani. L’equivoco nacque dal fatto che Mikao Usui, l’inventore del reiki, non aveva un’adeguata preparazione per comprendere quanto stava scoprendo, e soprattutto non aveva alcuna conoscenza di alchimia. Egli non fece altro che collegarsi, attraverso l’uso di alcuni simboli rinvenuti in un monastero tibetano, ad un campo di energia rigenerante realizzato alchemicamente in antichità. Ovviamente, non avendo le conoscenze per comprendere correttamente il fenomeno, non potè che interpretare la cosa in termini vagamente mistici.
Oggi, naturalmente, sono diffuse molte diverse forme di reiki, perché in seguito a Mikao Usui vari altri maestri, utilizzando differenti simbologie per arricchire la loro offerta, si sono collegati con altrettanti diversi campi di forze. La carica usata in queste scuole varia nel colore e nella qualità, tuttavia in nessun caso il reiki è mai stato portato al livello del Theerium, perché si rifà comunque alle tradizioni dell’alchimia asiatica, nelle quali l’incompleta conoscenza non ha permesso di realizzare un così elevato grado di purezza. Il reiki però, pur essendo un’iniziazione alchemica, non può in alcun modo essere considerato una via iniziatica; si tratta di una semplice pratica curativa.

sabato 10 ottobre 2009

La via del Potere




Attraverso il cinema, ma prima ancora nei fumetti, DC e Marvell su tutti, si propongono all'attenzione di milioni di appassionati entusiasti, supereroi dai poteri incredibili, come quello del dominio sulla materia, sugli elementi, sulle menti. Sin da piccoletto divoravo Black Macigno, Mandrake, Dottor Strange, Lanterna Verde, Capitan Miki e l'immancabile, per ogni figliarello italiano, Tex Willer. Col tempo mi accorsi dell’infantilità dei loro caratteri, tranne eccezioni, della puerilità delle motivazioni e dei ragionamenti, del fatto che spesso siano pieni d’odio e cattivi sentimenti.
Trovo necessario puntualizzare che queste capacità non solo possono aver per sorgente o Dio, o la natura o il Demonio, ma sono per così dire il segno dell’avanzamento su una certa via dello sviluppo di sè. Ci sono possibilità di ascesi naturali ed innaturali.
Oggi, a livello pubblicistico, letterario come il caso di Harry Potter, come già accennato nel cinema con le saghe dei Fantastici 4 e gli X Men, si promuovono le possibilità della via del Potere, alimentando negli spettatori il desiderio di poteri e conoscenze sovrumane che dovrebbero portarli non ad un contatto con Dio o a benefici spirituali, ma solo e sempre ad un maggior potere materiale. Si noti bene infatti che non si fa alcun accenno a Dio in queste opere, ma tutte le vicende si svolgono solo nel piano del divenire, non in quello dell’Essere.

I grandi mezzi mediatici, la cui potenza informativa non può essere negata, stanno infatti operando per un nuovo cambiamento culturale: fare dimenticare Dio e far prendere gusto per i piaceri terreni, tra i quali il potere.
Se la civiltà occidentale ormai al tramonto ha per base ideale la legge di Dio, l’incipiente civiltà dell’Uomo padrone di sé ha per base l’esercizio dell’assoluta libertà personale con qualsiasi mezzo.
Ma cosa è questa via del Potere che si è citata? Un sentiero di sviluppo interiore di poteri straordinari per ottenere dominio materiale sugli esseri umani.
Un testo poco recente, scritto da Louis Pauwels, esoterista ed allievo di G.I.Gurdjieff dà indicazioni illuminanti: in «Monsieur Gurdjieff» Pauwels raccolse molte testimonianze ed osservazioni sull’insegnamento del mago georgiano.
Vi si legge: “Sono convinto che il retroterra sia vero, ossia che Gurdjieff abbia davvero una grande sapienza e la voglia di trasmetterla ad una o due persone che se ne rivelino degne. Insomma Gurdjieff conosce una via dello sviluppo interiore di sè, ma quale via? Mi viene spontaneo rispondere: ci sono due vie, una verso Dio ed una verso il Potere”.
E di quest’ultima via, oscura, luciferina il georgiano sembrava maestro, usando metodi
talvolta stupefacenti per far avanzare i discepoli: Pauwels lascia intendere che Gurdjieff tentava di sviluppare nei suoi studenti uno stato d’animo profondamente negativo, necessario per ottenere risultati.
“Pare che ci siano monasteri nella Mongolia dove non solo le parolacce, il brutto carattere e gli insulti sono strumenti di insegnamento, ma anche le corde e i pugni se necessario. ... Anche la vecchia Blavatsky insultava i suoi seguaci, non per vera intenzione, ma per provocare delle reazioni profonde in loro”.
Quale risultato avevano simili metodi?

Pauwels riportava che alcuni studenti dicevano che la pietà e la carità sono chiacchiere senza il Potere, perdevano la capacità d’amare, e pensavano solo più a tiranneggiare sul prossimo.
Dal libro si evince che questo metodo consisteva nel creare ed alimentare un fortissimo egoismo col pretesto di trovare un centro in se stessi, e una enorme ferocia.
Gli uomini normali, addormentati venivano considerati delle macchine, e dunque manipolabili a piacere, senza importanza.
Ciò che Pauwels ha descritto richiama alla mente i film di Star Wars, prodotti da George Lucas.
In essi infatti due gruppi di praticanti poteri sovrumani si danno battaglia senza quartiere, i Jedi ed i Sith. I Jedi traggono il loro potere dall’equilibrio e dalla purezza interiore, e sono i maestri del Lato Chiaro della Forza, mentre i Sith dalle passioni, e maestri del Lato Oscuro.
Le forti emozioni negative quali rabbia, odio, malignità e crudeltà incrementano l’abilità del praticante del Lato Oscuro: più forte è l’emozione provata, più grande è il potere di cui si dispone.
Ne risulta che il Lato Oscuro provoca una fortissima assuefazione, cioé quanto più ne si richiama il potere, tanto meno si riesce a staccarsene. L’uso massiccio di queste capacità produce deformazioni fisiche, perché l’odio e la rabbia necessarie come carburante del potere corrompono il corpo. La corruzione si estende poi anche nell’animo, perché le emozioni negative si sostituiscono ad ogni altro pensiero e diventano i soli sentimenti che il Sith prova realmente; in questo caso l’adepto lascerà ogni cosa e cercherà solo più il potere assoluto.
Anche la relazione maestro-apprendista viene pervertita sotto i Sith, perché tutti e due, spinti dalla propria ambizione, finiranno a combattersi in uno scontro mortale per guadagnare il titolo di Maestro. Per i Sith questa lotta è un bene, perché il più forte, e dunque il più adatto, comanderà.
L’amore per una donna viene evitato dai Sith, perchè i sentimenti di sacrificio ed altruismo che ne potrebbero sorgere sarebbero d'’ostacolo alla loro passione principale ed indebolirebbero la loro abilità. Insomma, la via del Potere come percorso interiore attuale, in un mondo che conosce sempre di meno i valori umani e sempre più l’uso indiscriminato della forza per risolvere le contese, allo scopo di dominare ferocemente gli altri: sembrerebbe adatta come base per la spiritualità alla rovescia di cui parlava Renè Guenon, nel suo libro Il Regno della Quantità e i segni dei tempi.

Per coloro che possono credere che sia veramente possibile guadagnare superpoteri in questo modo verrà naturale una domanda: quale sarà il prezzo da pagare per chi intraprenderà questa via?
Innanzitutto le capacità intellettive di base, ossia la salute mentale.
Pauwels riporta che un simile percorso, sviluppando un assoluto egoismo, porta “all’ottenebramento dell’intelligenza, ed anche a quello del comune buon senso”.
Ancora peggio, se le passioni disordinate dell’animo impediscono all’anima di ricevere la grazia salvificante di Dio, cosa accadrà a chi si immerge in esse completamente e volontariamente e poi le amplifica?
Lasciamo l’ultima parola a Pauwels: “Quando si giunge in fondo alla via, quando si raccolgono i frutti del Potere, non esiste più alcuna apertura dell’anima verso Dio. E’ come andare alla Festa Nuziale senza quel requisito indispensabile che è l’amore”.

domenica 4 ottobre 2009

IL REGNO È DENTRO DI VOI

I discepoli gli domandarono: «In quale giorno verrà il Regno?». [Gesù rispose:] «Non verrà mentre lo si aspetta. Non diranno: “Ecco, è qui!”. Oppure: “Ecco, è là!”. Bensì il Regno del Padre è diffuso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono». [“Vangelo di Tommaso”, loghion 113]
Come restare indifferenti di fronte a parole simili, tracce di un messaggio perduto di Yeshua («Il Regno è dentro di voi», «Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti», «il Regno è dappertutto ma gli uomini non lo vedono»)? Il bellissimo senso del loghion 113 viene smarrito nei Vangeli ortodossi, frainteso alla luce della teologia paolina: «Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: È là, non ci credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti». (Matteo [xxiv,23-24]) La conoscenza va cercata, e quando si capisce che tutto ciò che si credeva di sapere su questo mondo è errato, ci si turba: ma proprio allora si capisce la verità, e ci si meraviglia, e quando ciò accade, finalmente si torna al regno divino da cui si è giunti e si regna con gli altri esseri divini su tutto ciò che esiste. Nel mondo materiale non c’è più vita, la vita è un fatto dello spirito: una volta che si capisce che cosa è davvero il mondo (morte), gli si è superiori e ci si innalza al di sopra.

martedì 22 settembre 2009

Dispute, anatemi e roghi per i libri di Maimonide


Incontri (e scontri) culturali all'interno delle comunità giudaiche d'Oriente e d'Occidente



Pubblichiamo una delle relazioni conclusive dell'incontro di presentazione del volume Hebrew Manuscript in the Vatican Library Catalogue svoltosi a Gerusalemme presso la Biblioteca nazionale di Israele. Il volume è stato realizzato dall'Institute of Microfilmed Hebrew Manuscript e dalla Jewish National and University Library (a cura di Benjamin Richler, Malachi Beit-Arié e Nurit Pasternak, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008, [Studi e testi, 438], pagine XXIX + 681 + 66*, 16 tavole fuori testo, euro 120).

Menachem Ben Sasson - Presidente della Hebrew University

La biblioteca è una porta che permette di entrare in molti mondi, alcuni dei quali sono descritti in maniera circostanziata nell'introduzione che Delio Vania Proverbio ha scritto per il volume Hebrew Manuscripts in the Vatican Library: Catalogue, a cura di Benjamin Richler, con descrizioni paleografiche e codicologiche di Malachi Beit-Arié e Nurit Pasternak, Città del Vaticano, 2008 (Studi e testi, 438). Ma questi mondi esorbitano comunque dagli angusti limiti di un'introduzione: essi compendiano capolavori eruditi e illustri, frutto del lavoro di generazioni di ricercatori. Per navigare nei mari che circondano il tesoro della Biblioteca Apostolica Vaticana - il mar Mediterraneo, il mar Adriatico, il mar Ionio e il mar Tirreno - bisogna possederne le mappe, che possono essere reperite ad abundantiam in questo catalogo; esse permettono, a chi le consulta, di sbarcare al sicuro nei vari porti, nelle città da cui provenivano i manoscritti prima di giungere nella Biblioteca Apostolica Vaticana per questo "incontro" fra le comunità.

Tutte le strade portano e portavano a Roma, non solo nel mondo antico. Nel mondo dei manoscritti ebraici del medioevo, l'Italia rappresenta un impero. In primo luogo per la sua posizione geografica situata fra Oriente e Occidente, tra Settentrione e Meridione. Non è un caso che la leggenda sull'origine dei centri ebraici nel Mediterraneo, la leggenda dei "quattro prigionieri" - riportata nel Sefer ha-Qabbalah del Avraham ben David of Provence 1125-1198) - inizi a Bari. L'Italia fu terra di rifugio per chi fuggiva dai territori del mondo ebraico a causa della sua divisione e per il concorso di tante circostanze economiche, politiche e religiose. Di conseguenza, malgrado la prevalente presenza di manoscritti ebraici italiani nella Biblioteca Apostolica Vaticana, risalta in essa anche il patrimonio dei mercanti, degli immigrati, dei rifugiati espulsi dai paesi europei, e delle comunità che vivevano a sud del mar Mediterraneo.

L'incontro proposto dai manoscritti si concretizza nell'afflusso di libri da tutto il mondo ebraico. I testi vengono copiati, studiati e inviati da un luogo all'altro, e così si propone un dialogo interebraico. I proprietari dei libri e delle biblioteche vanno ad abitare in luoghi diversi per tutto l'orbe giudaico, accompagnati dai loro libri. L'èthos che presiede alla raccolta dei tesori del passato in collezioni private si trasforma in un'espressione di autorità centrale, di governo e di potere. Presso la corte vaticana, come presso le corti reali, la collezione ebraica cominciò a essere sistematicamente incrementata dall'epoca di Papa Niccolò V, a partire dalla seconda metà del XV secolo. L'evoluzione della biblioteca all'epoca di Sisto v (1585-1590) rappresenta un altro passo verso l'edificazione dell'importante collezione in cui centinaia di scritti ebraici affluirono da luoghi diversi.

Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana sono custoditi manoscritti e testi disparati, che testimoniano un "incontro", benché a un'occhiata anche superficiale si evinca la presenza di un nucleo geograficamente omogeneo per la maggior parte dei manoscritti. Raramente nei manoscritti ci si imbatte nell'incontro fra le comunità giudaiche dei Paesi cristiani e le comunità giudaiche dei Paesi islamici, sia in Oriente che in Occidente. Infatti i centri di produzione e la lingua veicolare erano proprie delle singole comunità appartenenti a uno spazio politico, religioso e culturale continuo e omogeneo. Le vicende della cultura ebraica apparivano a tal punto frammentate che alcuni studiosi sostennero che nel basso medioevo vi fosse stata un'interruzione dei contatti tra le comunità, mentre altri continuano a difendere con forza la visione pragmatica di un continuum socio-culturale ebraico, anche soltanto per richiamarsi alla storica unione dei due concetti di ebrei ed ebraismo.

Ed effettivamente furono rari gli eventi nel basso medioevo ai quali parteciparono in toto le comunità di Israele. Un solo evento in particolare riuscì a unire concretamente in questo periodo le comunità giudaiche - sia quelle d'Oriente sia quelle d'Occidente, nei Paesi cristiani e in quelli islamici - e catalizzò l'attenzione su un solo tema, la controversia sugli scritti di Maimonide - rabbi Mosè ben Maimon, conosciuto nel mondo ebraico con l'acronimo di Rambam. Un certo numero di manoscritti della Biblioteca Vaticana concernono la vexata quaestio della controversia maimonidea, e al contempo la famiglia di Maimonide. Ne sono un celebre esempio i manoscritti Neofiti 11 e 12.

Il Neofiti 11 è un manoscritto vergato su pergamena e su carta. Esso contiene alcune unità codicologiche realizzate nel XIV secolo. Nel corso del tempo, per iniziativa di uno dei possessori, esse furono legate insieme, per meglio preservarle. Analogamente a molti manoscritti di questo genere, anche il Neofiti 11 ha un carattere omogeneo e contiene al suo interno copie di testi, in gran parte accomunati dallo stesso stile. Questa raccolta può essere definita, seguendo la precisa definizione di Malachi Beit-Arié, un composito fittizio. Le varie parti di questo codice composito sono legate alla famiglia di Maimonide e alle controversie intorno ai suoi scritti.

I punti principali della polemica sugli scritti di Maimonide, specialmente le opere giuridiche e filosofiche, vertevano su aspetti di tipo teorico ma con risvolti sociali. I critici ritenevano che il Mishne Torah, privo dell'indicazione di luogo e di citazioni talmudiche, contenesse una mescolanza inaccettabile di precetti halachici e opinioni filosofiche in materia giuridica; un'opera in cui sono espresse idee che possono apparire coraggiose e innovatrici al lettore tradizionale - una particolare attenzione fu dedicata alle sue opinioni sull'eternità dell'anima e sulla resurrezione dei morti - ma che furono considerate inammissibili dall'ebraismo tradizionale.

La controversia era legata a tensioni sociali emerse nella comunità ebraica ancor prima che la disputa vera e propria prendesse corpo e che trovarono un'occasione adatta per esprimersi in tale contesto. Le tensioni investivano la società ebraica sefardita in campo economico e intellettuale e si riverberavano pesantemente sull'osservanza dei precetti da parte delle classi più abbienti. C'erano tensioni tra gli ebrei dell'Europa nordoccidentale e tra gli ebrei sefarditi; tra gli ebrei di estrazione europea e tra quelli orientali nelle comunità del Medio Oriente (Alessandria d'Egitto e Israele). E in Oriente anche tra ebrei orientali tradizionalisti (la popolazione yemenita e irachena) e gli innovatori provenienti dalla Spagna. Si trattò di una polemica alla quale presero parte capi di diverse correnti religiose e di fazioni politiche avverse. Nella documentazione a noi pervenuta, sono espressamente nominate fra i partecipanti a questa polemica più di duecento persone lungo quattro generazioni, esponenti dell'élite intellettuale del popolo d'Israele.

Anche le armi della polemica furono diverse e gli argomenti della controversia ebbero larga diffusione.
Tali argomenti si propagarono da un posto all'altro grazie ai viaggiatori che le divulgavano e ai sostenitori itineranti; novità e aggiornamenti furono inviati per mezzo di lettere aperte - umoristiche e in rima - in Spagna, e dalla Spagna verso altri angoli del mondo ebraico; le parti in causa si lanciarono scomuniche reciproche e, in vista di queste scomuniche, arruolarono quei fratelli che contestavano l'autorità dei leaders avversari. La diffusione della polemica e le sue fasi acute trovano riscontro nel panorama generale delle reciproche scomuniche. Taluni ebrei spagnoli furono aiutati da loro confratelli provenzali scomunicati; spagnoli e provenzali ottennero aiuto dalla Francia e dall'Egitto; gli ebrei di San Giovanni d'Acri (Acco) si rivolsero agli ebrei francesi, agli ebrei di Mesopotamia e Damasco. Coloro che parteciparono attivamente alla controversia non furono soddisfatti dell'esito che essa ebbe, tanto che alcuni cercarono aiuto presso i non-ebrei: presso gli ordini mendicanti in Spagna - per mandare al rogo gli scritti non ammessi e per far tagliare le lingue alle spie - e in Italia presso il Papa - per ottenere il divieto di studiare gli scritti e, viceversa, per bloccare questa richiesta. Dal momento che la controversia era un fatto interno all'ebraismo, essa si svolse in ebraico, benché in Oriente le parti salienti furono scritte in arabo.

Tre furono le fasi principali della disputa sugli scritti di Maimonide, due delle quali investirono le comunità ebraiche sia in Oriente sia in Occidente. La prima fase si svolse mentre Maimonide era ancora in vita (intorno all'anno 1180), allorché il rabbino Meir Halevi Abulafia di Toledo e il rabbino Samuele ben Eli Gaon dall'Iraq si pronunciarono contro di lui. La seconda fase, quella più aspra (1204-1232), si incentrò sulle domande poste a Rabaam - rabbi Abraham ben Moshe ben Maimon, unico figlio del maestro, vissuto fra il 1186 e il 1237 - in merito agli scritti paterni e alle sue risposte, alle scomuniche in Europa, ai roghi degli scritti e alle reazioni provocate dai roghi. La terza fase ebbe luogo in Oriente negli anni 1285-1287. Anche questa volta i denigratori di Maimonide comminarono scomuniche contro i suoi sostenitori (e furono a loro volta censurati da questi ultimi); richiesero l'intervento degli ebrei di Francia, ricorsero ai membri della famiglia dell'esiliarca e ai geonim, tentando, senza successo, di coinvolgere il Pontefice. Tutto questo al fine di ottenere il divieto di insegnare la dottrina di Maimonide. La quarta fase, che ebbe come obiettivo la controversia sul curriculum studiorum, e in particolare lo studio della filosofia, è legata alla scomunica con la quale Rashba - acronimo del rabbino catalano Salomon ben Abraham ben 'Adret vissuto fra il 1235 e il 1310 - colpì coloro che si accingevano agli studi filosofici prima di aver compiuto il venticinquesimo anno di età. La scomunica fu promulgata nel 1305 e continuò a suscitare le reazioni dei sostenitori di Maimonide come dei suoi avversari.

Intorno agli scritti di Maimonide si svolse, perciò, un incontro fra le comunità che formavano Israele, incontro documentato dal composito costituito dai manoscritti Neofiti 11 e 12. In occasione della mostra sugli scritti di Maimonide (The Great Eagle at the Jewish National and University Library, 2004), abbiamo brevemente ripercorso la storia della biblioteca di famiglia dall'Egitto ad Aleppo. Una disamina più approfondita di questa vicenda è in corso di stampa.

Consultando "gli scaffali" della biblioteca di famiglia, troviamo notizie delle "comunità della biblioteca" in Egitto e ad Aleppo. La comunità che si trovava in Egitto si raccolse intorno alla casa di Maimonide; i membri della famiglia sorvegliavano a turno il "libro" autentico - sia quello pronto per la pubblicazione sia quello che era rimasto nella forma di "bozza" ormai avanzata. Ai membri della famiglia di Maimonide fu permesso di usare queste "bozze", perché essi ne detenevano i diritti d'autore. I membri della famiglia allargata promossero la copiatura delle sue opere, le studiarono e spinsero altre persone a studiare presso di loro. All'epoca della controversia sugli argomenti da studiare nell'ambito delle comunità, i membri della famiglia di Maimonide in Egitto e nei Paesi limitrofi rappresentarono le truppe scelte nella lotta contro gli oppositori e gli scomunicati. Presso le biblioteche sorte nell'ambito della famiglia allargata furono approntate diverse copie, che sono ora custodite nelle biblioteche di tutto il mondo.

Il Neofiti 11, che fu copiato nel XIV secolo, contiene diverse opere ed è possibile che provenisse dalla biblioteca di famiglia di Maimonide.

Il primo "incontro" collega Spagna, Marocco, Israele ed Egitto. Il seguente testo, dalla biblioteca di famiglia di Maimonide, è al momento noto in copia unica (Neofiti 11, fogli 128v-132v): "Risposte - domande al rabbino Maimon, padre del rabbino Moshe di santa memoria". Il padre aveva esercitato la professione di giudice a Cordoba prima di emigrare a Fez e da qui, via Israele, si diresse in Egitto, nell'anno 1165, e morì poco prima del suo arrivo.

Ancora fra le cose particolari è da menzionare questa dedica, presente soltanto in un Codice di Parigi, (ms. hébr. 347), copiato a Roma nel 1323, e contenente i capitoli VII-XIV del Mishne Torah): "Le rime furono trovate scritte nella cassa che custodiva i libri della Torah e stavano nella stessa cassa e in ogni famiglia c'era un solo libro e la cassa era di legno e i sigilli erano incisi sul coperchio di quella cassa"
"Nel campo della saggezza i mietitori mietono quella sapienza che a ogni persona nobile di cuore è assicurata.

Dietro a loro spigolano anche gli spigolatori. Io sono profondamente unito a loro.
Alcuni covoni si fecero da sé, ma si alzò il mio covone e sta anche in piedi - (attribuito al Maimonide o a Hasdai Hanassi).

"Questa è l'ampolla nel quale custodì la manna che servì a nutrire / i figli di Israele nel deserto per quaranta anni l'ha vuotata. / La manna è la religione che studiò e la parola di Dio che gli fu rivelata / Anche questo uomo Mosè la segue / si accampa presso il suo stendardo / Stese la nube della sua religione e / scavò un pozzo, (anche) il popolo vi attinge / Ha consultato gli "Urim" per le loro azioni / il suo agire fu di insegnamento a tutti / Un itinerario diritto indica la strada / alzò la sua ragione fra quelli che vacillarono / Come lo shofar levò la sua voce / Beato colui che comprende la sua parola / Beato colui che intende ciò che è occulto / a cui Dio rivela la fonte della sua intelligenza / dall'abisso lo fa salire / in cielo per abitare con la sua schiera / lo salva dall'ombra che passa / perché trovi rifugio nel favore di Dio e alla sua ombra / Dall'essere eredità di polvere / a sua eredità malgrado la sua fugacità / Che eredità migliore è questa / di una persona saggia si sentirà parlare" (riferito al suo studente Yosef ben Yehuda)
E a tutto questo va aggiunta anche una preziosa testimonianza sul completamento dell'opera Mishne Torah: "Anche questo fu scritto sulla cassa; ho terminato quest'opera (...) l'ottavo giorno del mese di Kislev 5592 dell'era seleucide in Egitto" (1180).

L'ampio prestigio di cui godeva Maimonide si evince dalle domande che gli venivano poste; pochissimo tempo prima del suo arrivo fu interpellato dalle comunità d'Egitto in merito ai problemi causati dallo scontro con i loro capi, e la risposta di Maimonide fu oggetto di accesi dibattiti pubblici. Quando egli consolidò la sua posizione, piovvero domande da tutto l'orbe ebraico. Una raccolta dalle sue risposte si trova nelle tredici pagine del Neofiti 11, e fra queste pagine vi sono le prime due risposte a Ovadia Hager, probabilmente in terra di Israele, sui proseliti e sui musulmani (copia della terza - "tutto sta nelle mani del cielo tranne il timore divino" - Vaticano ebraico 171, fogli 78v-79r). Egli rispondeva a domande precise e brevi. Da parte loro, però, le comunità posero problemi più grandi concernenti sia la vita pratica sia lo studio, a cui Maimonide dedicò opere e lettere.

La speciale autorità di Maimonide andò costituendosi e consolidandosi grazie alle lettere inviate agli ebrei della diaspora in risposta ai problemi della loro epoca, alle persecuzioni e agli stermini. La prima lettera, inviata ai paesi del Maghreb, concerne la conversione forzata. Nel 1172 spedì la cosiddetta lettera yemenita (Iggeret Teyman), nella quale affrontava l'accusa della conversione e il problema dei falsi Messia. In essa egli ci testimonia una tradizione, coltivata dai membri della propria famiglia, relativa alla profezia del Ritorno nell'anno 1216/7. La lettera yemenita è tràdita fra l'altro dal manoscritto Neofiti 11 e fu tradotta nell'anno 1215 da Shmuel ibn Tibbon: "Questa lettera fu scritta da Rabbi Mose (di benedetta memoria) nell'antica lingua di Kedar e nella lingua ebraica dal dotto rabbino Shmuel ibn Tibbon".

La diffusione del Mishne Torah fu il frutto di un'azione cosciente e deliberata di Maimonide. Inoltre, coloro che si dedicarono allo studio del libro formarono dei gruppi di studio, e lo stesso fecero i loro avversari, analizzandone i contenuti, la struttura e la maniera di citare le fonti. Un'eco di questa situazione risuona in tre lettere private ai suoi. La prima in ordine di tempo, scritta nell'anno 1185 in terra di Israele a Yafet Ben Eliahu, giudice a San Giovanni d'Acri, fa riferimento al viaggio della famiglia dall'Africa settentrionale e alla morte del fratello nell'Oceano Indiano.

Maimonide inviò una lettera dettagliata e sdegnata al giudice di Alessandria Pincas ben Meshullam, un ebreo provenzale emigrato in Egitto, ove aveva ottenuto la nomina a giudice grazie all'intervento di Maimonide. In essa egli parla di come fosse giunto a scrivere il Mishne Torah e della polemica che aveva accompagnato la ricezione del libro nelle comunità giudaiche.

Un posto speciale tra i destinatari delle lettere di Maimonide ebbe il suo studente prediletto, Yosef ben Yehuda, per il quale scrisse la Guida ai Perplessi.

Le discussioni con Maimonide sono legate al suo commentario all'ultimo capitolo del trattato Sanhedrin della Mishnah: "Tutto Israele ha parte nel mondo futuro". Una delle tre traduzioni note, attribuita a Shmuel ibn Tibbon si trova ai fogli 1v-15v del manoscritto Neofiti 11. Ecco le parole del copista: "Si è conclusa la discussione sul mondo futuro da parte del nostro rabbino Mosè (di benedetta memoria)". Queste parole e quelle simili del Mishne Torah nel libro della conoscenza conducono al secondo "incontro", tra Baghdad, Aden e Il Cairo. Esse spinsero Samuel ben Eli e gli yemeniti a contestare a Maimonide di non credere alla risurrezione dei morti. Maimonide scrisse allora una lettera nell'anno 1191, tradotta poco dopo da Shmuel ibn Tibbon (Neofiti 11, fogli 30v-50v), che si conclude con queste parole: "Ho trovato ciò che ha fatto il copista alla fine della discussione della risurrezione dei morti dalle parole straniere che hanno bisogno di delucidazione nel loro ordine alfabetico".

Nello stesso anno il fronte del dibattito si allargò verso Oriente. Maimonide replicò infatti al Gaon Samuel ben Ali di Baghdad circa la questione se fosse lecito o meno viaggiare sui grandi fiumi di sabato.
A seguito della diatriba fra Maimonide e il Gaon, un anno più tardi, nel 1192, Yosef Ibn Gabir inviò da Baghdad alcune domande a Maimonide, che replicò con risposte circostanziate. La traduzione della sua lettera a Yosef Ibn Gabir è contenuta nei fogli 66v-70v del manoscritto Neofiti 11.

Volgiamoci verso Occidente. Nel 1195 Maimonide scrisse una lettera ai saggi di Montpellier sull'astrologia: "In grande fretta il 12 del mese Tishri (un giorno dopo Yom Kippur) dell'anno 1507 dell'era seleucide nel paese d'Egitto. Non fatemi colpa, signori, della brevità delle mie parole; lo scritto svela che il mio tempo stringeva; ero infatti molto affaccendato in una quantità di impegni pubblici. La lettera sia inviata là dove sono delle salde colonne della terra (Michea, 6, 2), i dotti sapienti della terra di Francia che abitano a Montpellier, la cui guida è il prezioso dotto rabbi Jonatan ha-kohen".

Poco prima di morire Maimonide scrisse una lettera al traduttore delle sue opere, Shmuel ibn Tibbon, nella quale fornisce dettagli biografici e una risposta ai problemi della traduzione della Guida ai Perplessi. Anch'essa è contenuta nel Neofiti 11.

Il rogo dei libri di Maimonide in Provenza nel 1232 segnò una svolta nella controversia maimonidea che spinse taluni oppositori a studiare gli scritti di Maimonide. La notizia del rogo giunse al figlio Abraham solo tre anni più tardi, inducendolo a prendere posizione in modo netto.

Dalle sue parole sembra che tra coloro che giunsero in terra d'Israele fossero sia persone note per la loro ostilità verso gli scritti di Maimonide sia persone che manifestavano una certa apertura verso la sua dottrina. Il personaggio più noto era il rabbino Shimon da Shantz, che arrivò in quella regione dopo il 1214.
Sull'esistenza di posizioni ostili a Maimonide, così commentava Abraham: "Se la cosa fosse vera, pagheranno il fio delle loro azioni e se ne asterranno; se non fosse, colui che avrà sparso la voce su di loro ne riceverà una brutta reputazione". E alle domande relative al pericolo di diffondere queste opinioni, affermò che non c'era ragione di preoccuparsi, distinguendo tra "i più intelligenti fra i saggi", che erano arrivati dai Paesi europei, e "coloro che avevano una fede erronea" come per esempio il rabbino Shimon da Shantz:

"E quelli che hanno una fede erronea in questi princìpi nella terra di Shinar [Babilonia] e d'Oriente e di Siria e nella terra splendida [la terra di Israele] e nel Paese dell'Egitto e nella terra dell'occidente non contano niente, e ammesso che divulghino il loro segreto, persino davanti al popolo del Paese, si copriranno di ridicolo e di disprezzo e per loro sarà sufficiente il disonore di fronte a coloro che parleranno davanti a lui. E per questo motivo i più intelligenti fra i saggi giunti d'oltremare, sia dalla Francia che dagli altri paesi non ricordavano la fede sbagliata ed essa non uscì dalla loro bocca".
Fra le comunità d'Oriente e d'Occidente ci si attendeva da parte di Abraham una scomunica degli oppositori. Invece nelle Milhamot Adonai - "Le guerre di Dio" - (Neofiti 11, fogli 83r-99v) Abraham si rifiuta di bandire coloro che non approvavano la dottrina del padre e persino coloro che avevano provocato il rogo dei suoi scritti: "Ho allontanato la mia mano dal giudizio, (...) perché sarebbe stato come offendere Dio; allo stesso modo i nostri maestri hanno insegnato: "Non giudicare una persona a meno di non aver misericordia di lui, e non per odiarlo"".

Nell'ambito della controversia maimonidea, le vicende del rabbino David Hanaggid (detto Radba), figlio di Abraham, assumono particolare rilievo. David nacque nel 1222 e fu eletto capo degli ebrei all'età di 16 anni. Quando aveva 63 anni, il 13 giugno 1285, Radba fu allontanato dalla guida degli ebrei e si trasferì nella città crociata di San Giovanni d'Acri.

I sostenitori della dottrina maimonidea, che durante la seconda controversia erano ricorsi al figlio Abraham, si rivolsero al nipote David.

Dall'Italia Hillel da Verona, che in una lettera inviata a Isaac ben Mordechai aveva parlato delle precedenti polemiche, intrattenne rapporti con i membri della corte di David Hanaggid ad Alessandria e al Cairo. In un'altra sua lettera suggerì di chiamare in giudizio coloro che si opponevano agli scritti del Rambam in primis i saggi di Francia: "Quest'anno io intendo spedire delle grandi lettere al nipote del nostro rabbino e ai saggi del Paese d'Egitto e ai capi delle comunità di Babilonia per destare lo spirito e il cuore e per iniziare una guerra contro i saggi del paese di Ashkenaz e della Francia che disapprovano le parole del nostro rabbino (...) e consiglierò un'adunanza nella città di Alessandria che sta sul mare e là terranno consiglio e da lì spediranno i messaggeri (...) e i saggi di Babilonia decideranno su quella cosa (...) e se i saggi della Francia e dell'Ashkenaz si rifiuteranno di venire al posto del giudizio saranno espulsi, anatematizzati e scomunicati in tutte le comunità della Babilonia e dell'Egitto".

La presenza in San Giovanni d'Acri di David, nipote di Maimonide, cambiò l'equilibrio fino ad allora vigente fra le varie componenti della comunità ebraica, privilegiando gli orientali rispetto agli ashkenaziti. Sebbene in quel tempo la città non subisse nessun mutamento demografico significativo, il predominio degli orientali determinò una rivalutazione delle opere di Maimonide nei programmi didattici delle locali scuole midrashiche.

Un ebreo di origine europea, Solomon ben Samuel, detto Salomon Petit, si oppose al predominio culturale di Maimonide, imputandogli diversi errori dottrinari. David scrisse un esposto a Yshai ben Hizkiah, l'esiliarca residente a Damasco. Yshai minacciò il rabbino Salomon Petit, avvertendolo che qualsiasi tentativo di vilipendere Maimonide e il suo insegnamento avrebbe comportato la scomunica e che sarebbe stato disposto ad adire i tribunali dei gentili nel caso fosse stato necessario al fine di applicare i suoi ordini.
Salomon Petit si rivolse ai non ebrei per trovare sostegno nella sua lotta; oltre a ciò, richiese di raccogliere i documenti ufficiali che proibivano di studiare le opere di Maimonide. Dai capi delle comunità ebraiche di Francia si aspettava una scomunica che impedisse agli ebrei d'Europa e a ai loro discendenti in terra d'Israele di occuparsi delle opere di Maimonide. Dal Papa di Roma si attendeva un editto che proibisse lo studio dei suoi scritti; un tale divieto, se fosse stato reso pubblico, avrebbe avuto serie conseguenze a San Giovanni d'Acri, allora governata dai crociati.

Così sono narrati i fatti in alcune lettere di scomunica che datano al 1286-1289, tramandate dal manoscritto Neofiti 11. A una lettera di scomunica che Yshai Ben Hizkia Hanassi inviò da Damasco nel 1286 (Neofiti 11, fogli 98r-100v), è aggiunto il testo seguente: "Anche noi, la comunità che abita in Safed nell'alta Galilea, deponemmo le nostre armi all'inizio e sostammo presso la tomba del Gaon di santa memoria con alcuni fra i saggi di San Giovanni d'Acri e abbiamo parlato e abbiamo stipulato un accordo, e abbiamo scomunicato ed espulso chiunque avrà disprezzato le nostre parole e l'accordo dei nostri capi e non si sarà convertito con tutto il suo cuore e avrà abbandonato tutto ciò che ha in mano (...) in potere del Nagid, il nostro rabbino David, capo delle Yeshiva del Gaon di santa memoria o in potere dei preferiti dei Negidim o in potere di colui che comanda sotto di lui".

L'importanza di David ben Abraham nell'istituzionalizzazione della dinastia maimonidea si evince dalla genealogia dei membri della famiglia di Maimonide, da lui redatta - vi indica anche il giorno della propria nascita e della nascita dei propri figli - e parzialmente testimoniata dal Neofiti 11 al foglio 125r.
Aggiungo un altro dettaglio: nel Neofiti 12 vi è una collezione di lettere, in centoventi capitoli distribuiti su centonovantuno fogli, intitolata Il dono della gelosia, di Mari ben Mosè Astruc di Lunel. Essa comprende anche scritti di Solomon ben Abraham Ibn Adret, che nel 1205 aveva lanciato una scomunica contro chi si occupava dello studio della filosofia.

L'escussione del codice Neofiti 11 ci ha permesso di entrare in contatto, di assistere all'"incontro" fra le più disparate comunità ebraiche: in India, Aden, Bagdad, Aleppo, Damasco, Tiberiade, Safed, San Giovanni d'Acri, Gerusalemme, Alessandria, Il Cairo, Roma (l'archivio della Biblioteca Apostolica Vaticana), Venezia, Marsiglia, Genova, Fez, Cordoba, Barcellona, Monopoli, Lunel e le comunità della Francia.
Auspico che tale "incontro" avvenga ancora attraverso la comparazione con quanto è presente nei cataloghi della Bodleian Library di Oxford e della Biblioteca Palatina di Parma. Questi tre cataloghi sono il frutto del lavoro erudito e tenace di un gruppo di ricercatori dell'Institute for Microfilmed Hebrew Manuscripts e della collaborazione internazionale che l'Istituto è riuscito a organizzare nel corso della sua esistenza.