Libera lo splendore prigioniero. Il tentativo è quello di attivare delle volontà, di far partire una scintilla che, raccolta da chi ci segue, crei una scarica permanente, un flusso. Verrà il momento in cui tutti gli sconvolgimenti cosmici si assesteranno e l’universo si aprirà per un attimo, mostrandoci quello che può fare l’uomo.

sabato 18 aprile 2009

CODICI DI ACCESSO

Non c’è qualcosa che non ci riguardi.

La Bhagavad Gita dice che è più facile fermare il vento con le mani che controllare la mente.

Le grandi energie stentano a manifestarsi nell’esagerata frammentazione ideopsicologica e si esprimono ad oceano in ogni forma di aggregazione fino alla coscienza della non separazione.

La mente trasmette su tutte le bande, dall’unità cosmica alla babele frammentata.

Il tempo non esiste nel senso classicamente inteso. È circolare, quindi compresente. I modi per misurarlo sono solo convenzioni. Esiste solo la nostra percezione. La consapevolezza è dinamica. Se togli la percezione… il caos impera camuffato da normalità, omologabile a piacimento dagli oscuri signori.

La realtà è una superstizione borghese.

Sentire il flusso, immergersi nella corrente: la vita, l’energia divina, la gioia. Nelle sue profondità il mare è sempre calmo e trasparente; solo la superficie è agitata.
Così, se noi non sappiamo cogliere l’azione continua del Divino in noi, è perchè i nostri affanni, i nostri progetti e i nostri rimpianti, le scorie scintillanti dei nostri ricordi e dei nostri sogni, le nostre idee insomma, ci fascinano e ci obnubilano. All’origine di tutti i mali, il movimento centrifugo dell’intelletto: accecati da loro stessi, gli uomini cercano lontano ciò che è nel proprio intimo, cercano mezzogiorno alle due del pomeriggio.
Ebbene, come sentenzia il detto coranico, Dio ti è più vicino della tua vena giugulare. Ancora una volta, si tratta di operare una conversione.


Una storia gnostica, quella che ci manca, è fatta in gran parte di «intersignes» (come li chiamava Massignon), avvertimenti insoliti, coincidenze (così li chiamano gli storici, per evitarli), forme erratiche, reliquie sepolte, segnature fisiognomiche, costellazioni latenti nel cielo del pensiero.
Più invecchi e più i tuoi tempi rallentano. Sai, quando è giovane, l’universo si espande fino a coprire milioni di chilometri in un lampo secondo, quando è maturo, diventa fisso, immobile, uniforme e pulsa al ritmo di profonde vene emozionali, e poi quando invecchia implode su se stesso. Per me è la stessa cosa.

La magia è stata diffamata innanzitutto da coloro che l’hanno equiparata a una creazione. E della creazione pensavano che operasse ex nihilo. Doppia ingenuità. È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque, e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, con il nome giusto, allora viene. Questa è l’essenza della magia, che non crea ma chiama. Il culto degli idoli è in primo luogo il tentativo di evocare lo splendore della vita con i nomi, di volta in volta, giusti. Basterebbe questo riconoscimento per vanificare la lotta atavica contro gli dèi. Lotta che ignora come il singolare sia un modo di essere del plurale. E il plurale un modo di cogliere lo scintillio dello splendore velato. Nei primi giorni di Zurau, Kafka annotò queste parole: « O bella ora, magistrale stato, giardino in-selvatichito. Tu svolti dalla casa e sul sentiero del giardino ti viene incontro la dea della felicità». Dea che nominò soltanto quella volta.

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