Libera lo splendore prigioniero. Il tentativo è quello di attivare delle volontà, di far partire una scintilla che, raccolta da chi ci segue, crei una scarica permanente, un flusso. Verrà il momento in cui tutti gli sconvolgimenti cosmici si assesteranno e l’universo si aprirà per un attimo, mostrandoci quello che può fare l’uomo.

giovedì 6 novembre 2008


Percezioni


Quando, nell’atteggiamento “naturale” che è quello di tutti gli esseri esistenti, io “vedo” una cosa, la mia percezione è spontanea, è la casa che percepisco e non la mia percezione stessa. Invece, nell’atteggiamento “trascendentale” è la mia percezione stessa che viene percepita. Ma questa percezione della percezione altera radicalmente lo stato primitivo. Lo stato vissuto, dapprima ingenuo, perde la sua spontaneità precisamente per il fatto che la nuova riflessione assume come oggetto ciò che era prima stato e non oggetto, e per il fatto che, fra gli elementi della mia nuova percezione, figurano non soltanto quelli della casa in quanto tale, ma quelli della percezione stessa in quanto flusso vissuto. E ciò che importa essenzialmente in questa “alterazione”, è il fatto che la visione concomitante che ho – in questo stato bi-riflessivo, o piuttosto di riflessione riflessiva – della casa che fu il mio motivo originale, lungi dall’essere perduta, allontanata o annebbiata dall’interporsi della mia seconda percezione davanti alla sua percezione primaria, ne risulta paradossalmente intensificata, più netta, più presente, più di prima carica di realtà oggettiva. Ci troviamo qui davanti ad un fatto ingiustificabile con la pura analisi speculativa: quello della trasfigurazione della cosa come fatto di coscienza, della sua trasformazione, come diremo più avanti, in “super-cosa”, del suo passaggio dallo stato di scienza allo stato di coscienza. Questo fatto è generalmente misconosciuto, benché sia quello che più colpisce di ogni esperimento fenomenologico reale. Tutte le difficoltà contro cui urtano la fenomenologia comune e del resto tutte le teorie classiche della “conoscenza” risiedono nel fatto che esse considerano la coppia coscienza-conoscenza (o più esattamente la coppia coscienza-scienza) capace di esaurire la sola totalità del vissuto, mentre si dovrebbe in realtà considerare la triade conoscenza-coscienza-scienza che è la sola a permettere un’impostazione realmente ontologica della fenomenologia. E certamente, nulla può rendere evidente questa trasfigurazione, tranne l’esperienza diretta e personale dello studioso di fenomenologia. Ma nessuno può pretendere di aver capito la fenomenologia realmente trascendentale se non ha fatto questa esperienza con successo e non ne è stato egli stesso “illuminato”.
Fosse anche il dialettico più sottile, il logico più acuto, colui che non l’ha affatto vissuta e che così non ha visto altre cose sotto le cose, non può fare che parole sulla fenomenologia e non può assumere un’attività realmente fenomenologica. Facciamo un esempio più preciso. Per quanto lontano risalgono i miei ricordi, ho sempre saputo riconoscere i colori, il blu, il rosso, il giallo. Il mio occhio li vedeva, ne avevo l’esperienza latente. Certo, il “mio occhio” non si interrogava su di essi, e come, del resto, avrebbe potuto porsi delle domande? La sua funzione è di vedere, non di vedersi mentre vede, ma il mio cervello stesso era come in sonno, non era affatto l’occhio dell’occhio, ma un semplice prolungamento di questo organo. Così dicevo soltanto, e quasi senza pensarci: questo è un bel rosso, un verde un po’ spento, un bianco brillante. Un giorno, alcuni anni fa, passeggiando fra le vigne del Vaud che sovrastano il lago Lemano e formano uno dei più bei paesaggi del mondo, un luogo così bello e così vasto che l’”Io”, a forza di esservisi dilatato, vi si sente dissolto e, improvvisamente, si riprende e si esalta, accadde un fatto improvviso e per me straordinario. Avevo visto cento volte l’ocra del versante scosceso, il blu del lago, il violetto dei monti di Savoia, e, sullo sfondo i ghiacciai scintillanti di Grand-Combin. Seppi per la prima volta che non li avevo mai guardati. Eppure vivevo in quel luogo da tre mesi. E quel paesaggio, certo, dopo il primo istante, non riusciva a dissolvermi, ma ciò che ad esso rispondeva in me non era che esaltazione confusa. Certo, l’”Io” del filosofo è più forte di tutti i paesaggi. Il sentimento acuto della bellezza non è che un riprendere consapevolezza, da parte dell’”Io”, che ne acquista maggior forza, di quella distanza infinita che ci separa da essa. Ma quel giorno, improvvisamente, io seppi che creavo io stesso quel paesaggio, che esso non era nulla senza di me: “Sono io che ti vedo, e che mi vedo vederti, e che, vedendomi, ti faccio”. Questo vero grido interiore è quello del demiurgo nella “sua” creazione del mondo. Non è soltanto sospensione di un “vecchio” mondo, ma proiezione di un “nuovo” mondo. E all’istante, infatti, il mondo fu ricreato. Mai avevo visto simili colori. Essi erano cento volte più intensi, più sfumati, più “vivi”. Seppi che avevo acquistato il senso dei colori, che avevo riacquistato un occhio vergine dinnanzi ai colori, che mai fino a quel momento avevo visto un quadro o ero penetrato nell’universo della pittura. Ma seppi anche che, per quel richiamo a se stessa della mia coscienza, per quella percezione della mia percezione, io possedevo la chiave di quel mondo della trasfigurazione che non è un retro-mondo misterioso ma il vero mondo, quello da cui la “natura” ci tiene in esilio. Nulla in comune, certo, con l’attenzione. La trasfigurazione è piena, l’attenzione no. La trasfigurazione si conosce nella propria sufficienza certa, l’attenzione si tende verso una sufficienza eventuale. Non si può dire, beninteso, che l’attenzione sia vuota. Al contrario, essa è a-vuota. Ma l’assenza di vuoto non è la pienezza. Quando ritornai al villaggio, quel giorno, le persone che incontravo erano per lo più “attente” al loro lavoro: eppure mi parvero tutti dei sonnambuli.

Raymond Abellio, Quaderni del Circolo di Studi Metafisici

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